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venerdì 27 gennaio 2012

Il Paradiso Terrestre scoperto da Cristoforo Colombo - 1° parte di 3




Fonte: Pino Cimò,
tratto da: IL NUOVO MONDO: La scoperta dell'America nel racconto dei grandi navigatori italiani del Cinquecento

Editoriali GIORGIO MONDADORI 1991 - MILANO


La lettera ai Reali di Spagna in cui Colombo annuncia la scoperta - fatta nel corso del suo terzo viaggio transatlantico - della "terraferma" e ipotizza l'esistenza sul suolo sudamericano del Paradiso Terrestre


Hispaniola, settembre-ottobre 1498 Serenissimi, altissimi e potentissimi Principi, Re e Regina, Nostri Signori.
La Santa Trinità indusse le Vostre Maestà a quest'impresa delle Indie e, nella sua infinita bontà, scelse me come ambasciatore. Per questo venni con la mia proposta al vostro reale cospetto di Principi più esimii della Cristianità, molto impegnati nella diffusione della fede. Le persone che esaminarono il progetto lo giudicarono impossibile, dando molta importanza agli interessi materiali e fissando l'attenzione solo su questi. Trascorsi così sei o sette anni in grandi angustie facendo del mio meglio per dimostrare che si poteva rendere un grande servizio a Nostro Signore, divulgando il suo santo nome e la fede cristiana tra tante genti: cosa questa che assicura eccellenza, buona fama e un ricordo imperituro ai grandi Principi. Dovetti, inoltre, affrontare il tema degli aspetti materiali del progetto segnalando gli scritti di molti uomini dotti, degni di fede, che avevano raccontato nelle loro opere che in queste parti del mondo c'erano molte ricchezze. Mi vidi anche costretto ad appellarmi alle affermazioni e alle opinioni espresse da coloro che avevano scritto sul mondo e analizzato la sua conformazione. Finalmente le Vostre Maestà decisero che il progetto fosse realizzato. In questo dimostrarono la grandezza d'animo con cui hanno sempre affrontato le opere di grande importanza. Difatti tutti coloro che avevano esaminato il progetto o che ne avevano sentito parlare l'avevano giudicato un'idea da burla. Hanno fatto eccezione soltanto due monaci (Juan Perez e Antonio de Marchena) che fin dall'inizio, e senza mai tergiversare, l'hanno ritenuto realizzabile. Io, benché mi sentissi angustiato, ero sicurissimo che il progetto sarebbe stato portato a compimento e continuo a nutrire lo stesso tipo di certezza perché non c'è dubbio sul fatto che tutto può risultare illusorio tranne la parola di Dio. Quello che Dio ha detto non può non compiersi. Egli in effetti si è espresso in termini chiarissimi, parlando di queste terre, per bocca del profeta Isaia, in vari punti della Sacra Scrittura affermando che il Suo nome si sarebbe divulgato dappertutto irradiandosi dalla Spagna. Così io intrapresi il viaggio nel nome della Santa Trinità e feci ritorno in breve tempo avendo toccato con mano tutto quanto avevo predetto. Le vostre Maestà mi mandarono una seconda volta e in poco tempo, con l'aiuto della grazia divina, scoprii 1332 miglia di terraferma, nell'estremo oriente, e diedi un nome a 700 isole nuove oltre quelle scoperte nel primo viaggio. Sottomisi Hispaniola, che ha un'estensione più grande di quella della Spagna e che è abitata da una popolazione innumerevole da me tutta sottoposta a tributo. Sorsero, però, voci di maldicenza e di disprezzo per l'impresa iniziata. Mi si accusava di non aver subito inviate le navi cariche d'oro senza tenere in considerazione la limitatezza del tempo avuto a disposizione e gli altri contrattempi a cui ho già accennato. E così, non so se per i miei sbagli o per i trionfi ottenuti, si cominciò a vedere di mal'occhio e a osteggiare, tutto quello che io dicevo o richiedevo. Fu allora che presi la decisione di presentarmi alle Vostre Maestà sia per esternare la mia meraviglia per quanto succedeva sia per dimostrare che la ragione stava tutta dalla mia parte: dissi dei popoli che avevo visto, delle molte anime che si potevano salvare in mezzo a loro, e del fatto che avevo obbligato le genti di Hispaniola a pagare un tributo e a riconoscere le Vostre Maestà per loro Sovrani e Signori. Portai con me un numero sufficiente di campioni dell'oro che si trova in miniera e di pepite molto grandi e di rame: presentai pure una quantità di spezie così grande che non finirei di descriverle e riferii loro dell'enorme quantità di legno brasil e di molte altre cose trovate. Ma tutto questo non bastò a certe persone che erano intenzionate a porre in cattiva luce l'impresa e già avevano iniziato a farlo: fu inutile parlare del servizio che si rendeva a Nostro Signore salvando tante anime; né servì dire che la salvezza di tante anime avrebbe costituito per le Vostre Maestà il titolo di grandezza più esimio che sia mai stato acquisito da un principe; non si tenne neanche in conto il fatto che la fatica e le spese dell'impresa non erano destinate solo allo spirituale ma anche agli aspetti materiali e che quindi era prevedibile che, con il passar del tempo, la Spagna ne avrebbe tratto un grande vantaggio. Questo del resto lo si poteva già intuire leggendo le opere di quelli che avevano scritto di queste terre: le indicazioni erano già tanto chiare che non si poteva non prevederne la conclusione. Non servì a niente menzionare ciò che avevano fatto i grandi Principi nel passato per rendersi famosi: Salomone, per esempio, che mandò le sue navi da Gerusalemme fino all'estremità dell'Oriente alla ricerca del monte Sopora, dove le imbarcazioni si trattennero tre anni; Alessandro, che inviò una spedizione all'isola di Trapobana, in India; Nerone Cesare, che fece esplorare il Nilo per capire i motivi che ne provocano la crescita d'estate, quando le piogge scarseggiano; o numerose altre imprese compiute dai Principi, come è di loro competenza. Né ottenni alcun risultato sostenendo di non avere mai letto che i Principi di Pastiglia avessero conquistato terre fuori del loro regno; o dicendo che questo da me scoperto è un mondo diverso da quello che i Romani, i Greci e Alessandro tentarono di conquistare con grandi sforzi e grandi eserciti; o, riferendomi al presente, parlando dei Reali del Portogallo, che ebbero l'ardire di scoprire e di conquistare la Guinea (Africa occidentale) non badando né a spese né alla quantità di gente impiegata, che se uno contasse tutta quella che risiede nel regno si accorgerebbe che metà di essa è morta in Guinea (cfr. sopra). Tuttavia continuarono nell'impresa fino ad ottenerne quello che ora si sa.

L'avvio dell'impresa risale a tanto tempo fa ma è solo da poco che essa ha cominciato a dare profitto. Ed essi hanno osato pure fare conquiste in Africa e sostenere le campagne di Ceuta, Tangeri, Arzila e Alcazar, senza interrompere la guerra ai Mori: e tutto questo lo hanno fatto affrontando spese enormi, con il solo obiettivo di realizzare imprese degne solo di Principi: servire Dio e accrescere i propri dominii. Ma più io dicevo più si duplicavano gli sforzi per ridimensionare o porre in cattiva luce l'impresa, senza tenere in conto il fatto che essa avesse suscitato tanta ammirazione; che tutti i Cristiani avessero tessuto le Vostre lodi per aver preso questa iniziativa; e che non ci fosse stata persona importante o da poco che non avesse chiesto di saperne di più a riguardo. Le Vostre Maestà mi risposero ridendosi di tutto ciò e pregandomi di non preoccuparmi di nulla perché non intendevano riconoscere autorità né dare credito a chi diceva male di questa impresa. Partii, in nome della Santissima Trinità, mercoledì 30 maggio dalla città di Sanlúcar. Ero ancora stanco del viaggio dato che, dove speravo di trovar riposo, partendo dalle Indie, mi si era duplicata la sofferenza. Seguendo una rotta insolita mi diressi all'isola di Madera per evitare uno scontro con la flotta francese, che era appostata al capo San Vincenzo. Da Madera proseguii per le Canarie. Da lì partii con una nave e due caravelle: le altre navi le inviai, per la rotta diretta alle Indie, a Hispaniola. Io, da parte mia, puntai a sud con l'intenzione di raggiungere la linea equinoziale (Equatore) e da lì continuare verso ponente fino a quando non mi trovassi con l'isola di Hispaniola a nord. E arrivato alle isole di Capo Verde – nome falso, perché sono talmente aride che io non vi scorsi nulla di verde e la gente è tutta malata, tanto che non osai fermarmi – navigai in direzione di sud-ovest per 480 miglia, cioè per 120 leghe, fino a quando, sul far della sera, ebbi la stella polare a cinque gradi di altezza. Lì il vento mi abbandonò e mi trovai in mezzo a un caldo così torrido che temetti che la nave e la gente prendessero fuoco. La calura provocò improvvisamente una situazione insostenibile: non c'era nessuno che avesse il coraggio di scendere sotto coperta per prendersi cura delle botti e dei viveri. Questo caldo soffocante si protrasse per otto giorni: il primo giorno il cielo era sereno, gli altri sette giorni nuvoloso e piovoso, il che però non ci servì di rimedio. Certo, però, se avessimo avuto il sole del primo giorno non credo che avremmo avuto possibilità di salvarci.
Ricordai che, navigando verso le Indie, ogni volta che oltrepassavo di 400 miglia a ponente le isole Azzorre la temperatura mutava ovunque, sia a nord che a sud; e decisi che se Nostro Signore si fosse compiaciuto di concedermi vento a favore per uscire dalla zona dove mi trovavo, non mi sarei più spinto verso mezzogiorno e neanche sarei tornato indietro: sarei, invece, andato avanti, in direzione di ponente, fino a toccare quella linea con la speranza d'incontrare lo stesso tipo di temperatura di cui avevo beneficiato quando navigavo lungo il parallelo delle Canarie. Nel caso ciò si fosse verificato, allora mi sarei potuto spostare più a sud e proseguire la navigazione. Dopo quegli otto giorni piacque a Dio di darmi buon vento di levante e io mi diressi a ponente senza però osare più di deviare verso sud perché osservai un grandissimo mutamento sia nel cielo sia nelle stelle mentre, invece, la temperatura si mantenne costante. Decisi così di continuare, sempre in direzione di ponente, sulla linea della Sierra Leone con l'intenzione di non mutare rotta fino alla zona dove calcolavo di toccare terra: avrei potuto, in questo modo, rimettere in ordine le navi e, se possibile, rifornirmi di viveri e procurarmi l'acqua di cui avevo bisogno. Diciassette giorni dopo, durante i quali Nostro Signore ci concesse vento favorevole, martedì 31 luglio a mezzogiorno ci apparve la terra che io avevo contato di incontrare il lunedì precedente. Proseguii nella stessa direzione fino all'alba ma poi, per via dell'acqua di cui avevo terminato le scorte, decisi di recarmi alle isole dei Cannibali e presi quella rotta. E dato che la Sua Alta Maestà è stata sempre misericordiosa con me, un marinaio salì per caso sulla vela di gabbia e vide a ponente tre cime di montagna. Recitammo la Salve Regina e altre preghiere e rendemmo tutti molte grazie a Nostro Signore. Abbandonai la rotta nord e navigai verso terra: all'ora di compieta arrivai a un capo che denominai della Galera. L'isola la chiamai Trinità. E lì ci sarebbe stato un buon porto se fosse stato abbastanza fondo e c'erano case, genti e terre bellissime, fertili e verdi come gli orti di Valenza a marzo. Mi dispiacque quando mi accorsi di non potere entrare nel porto e proseguii rapidamente lungo la costa di questa terra in direzione di ponente. Dopo aver percorso 20 miglia trovai una zona di ancoraggio molto buona e mi fermai. L'indomani ripresi la navigazione nella stessa direzione, alla ricerca di un porto dove rimettere in sesto le navi, rifornirmi d'acqua e risistemare le scorte di grano e di viveri che portavo. In quel posto presi soltanto una botte d'acqua e con essa procedetti fino al capo, a est del quale trovai una insenatura ben riparata e dotata di buon fondo. E allora diedi ordine di gettare le ancore, che si rimettessero in ordine le imbarcazioni, si caricasse acqua e legna e che la gente scendesse a terra per riposarsi dopo tutto il tempo che aveva sofferto stando a bordo.Denominai questo capo dell'Arenile, e lì trovammo il terreno tutto segnato con orme di animali con le zampe come le capre: sembrava che ce ne dovessero essere tantissimi, ma ne vedemmo uno solo morto. L'indomani arrivò da est una grande canoa con a bordo 24 uomini, tutti giovani e ben armati di archi, frecce e scudi. Come dicevo erano giovani di buona corporatura e di carnagione non nera, ma più bianca di quella che io fino ad allora avevo avuto occasione di osservare nelle Indie. Erano di bell'aspetto e di robusta corporatura, i capelli lunghi e lisci con un taglio alla castigliana: attorno alla testa portavano un fazzoletto di cotone, disegnato e colorato, che faceva pensare alla almayzare, la cuffia di garza usata dai mori. Qualcuno portava il fazzoletto ai fianchi e si coprivano con esso al posto delle mutande. Quando la canoa si fermò ci parlarono da molto lontano, ma né io né altri riuscivamo a capirli; per questo diedi ordine che facessero loro segno di avvicinarsi. Passarono così due ore: si avvicinavano un po' e poi si allontanavano. Per spingerli ad avvicinarsi io facevo mostrare loro bacinelle e altri oggetti che luccicavano e dopo un bel po' si avvicinarono più di quanto avessero fatto fino ad allora. Io avevo una gran voglia di parlare con loro e non sapevo più che oggetto mostrare per spingerli ad accostarsi a noi. Feci allora andare un tamburino sul castello di poppa perché sonasse mentre alcuni giovani danzavano, credendo che così gli indigeni si sarebbero uniti alla festa. Ma quelli non appena udirono il tamburo e videro i giovani che danzavano, abbandonarono i remi, impugnarono e incoccarono gli archi e, abbracciato ognuno il suo scudo, incominciarono a lanciarci frecce. Quando io feci cessare la musica e la danza e diedi ordine di dar di mano alle balestre gli indigeni si spostarono velocemente verso un'altra caravella, accostandosi alla poppa. Il pilota salì sulla canoa e diede in regalo un berretto e una casacca all'uomo che gli sembrò il loro capo e si mise d'accordo con lui per andare a parlargli sulla spiaggia, dove essi si spostarono subito con la canoa aspettandolo. Ma il pilota non voleva andare all'appuntamento senza la mia autorizzazione e, quando essi lo videro avvicinarsi con la barca alla mia nave, salirono di nuovo sulla canoa e andarono via. Non vedemmo mai più né loro né altri di quell'isola.
Quando raggiunsi la punta, dell'Arenile mi accorsi che l'isola di Trinità e la terra di Grazia formavano uno stretto di otto miglia da ponente a levante e che per attraversarlo, dirigendosi a nord, si andava incontro ad alcuni filoni di corrente che nello stretto provocavano un forte strepito. Pensai che si trattasse di un banco di secche e di scogli che bloccavano l'entrata dello stretto. Ma i filoni di corrente erano molti e provocavano tutti un gran fragore: sembravano onde del mare che sbattessero contro scogli e s'infrangessero. Gettai le ancore in quella punta dell'Arenile, appena fuori dell'imboccatura dello stretto, e mi accorsi che l'acqua si muoveva, da est a ovest, con la furia del fiume Guadalquivir in piena e in maniera continua, sia di giorno che di notte. Temetti di non potere tornare indietro a causa delle correnti né di potere andare avanti a causa dei fondali bassi. Nel pieno della notte, mentre mi trovavo sul ponte della nave, udii un terribile ruggito che proveniva da sud in direzione della nave: rimasi immobile a guardare e vidi il mare che si alzava da ovest a est, formando una collina alta quanto la nave, e che avanzava lentamente verso di me. Sulla massa d'acqua in movimento c'era una corrente che veniva avanti ruggendo rumorosamente come le correnti di cui ho parlato prima paragonandole a onde che s'infrangono contro scogliere. Rimasi terrorizzato a quella vista: ebbi paura - e ho ancora vivissima nelle mie carni quella sensazione - che le acque infuriate travolgessero la nave prendendola da sotto ma per fortuna esse passarono al largo dell'imbarcazione, raggiunsero l'entrata del canale e vi rimasero a lungo.

Domani la 2° parte.

1 commento:

  1. Grazie mi è stato MOLTO utile per la mia ricerca di storia! :D

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