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venerdì 15 febbraio 2013

I Fenici ai confini del mondo: Le isole erranti e le colonne d'Ercole (Melqart)

I Fenici ai confini del mondo: Le isole erranti e le colonne d'Ercole (Melqart)
di Paolo Bernardini


1. Gadir, ai confini del mondo
Oltre lo sperone di Gibilterra, nell’ultimo tratto di mare, infido e pericoloso, che divide le navi
dei Phoìnikes dall’approdo di Cadice, si apre la bahìa di Algeciras, l’approdo segnalato da una
benevola dea velata, ritta sull’erta orientale dello sperone; così doveva apparire ai marinai la stalagmite, di sembianza antropomorfa, che si staglia all’ingresso della grotta di Gorham. Nella
baia, l’approdo della dea diventa nel settimo secolo a.C. un insediamento importante, disposto
lungo il corso terminale del rio Guadarranque; è il periodo nel quale nella grotta sono
deposti scarabei e ceramiche e alla divinità si offrono pasti e libazioni rituali. Ma, oltre la baia, Gadir e i confini del mondo restano da raggiungere, separati da un mare difficile; nei mitici, tormentati primi viaggi di esplorazione in queste lontane contrade ancora ignote, non soltanto il mare è ostile e il luogo indicato dall’oracolo divino per la fondazione di Gadir si nasconde nell’ambiguità e nell’incertezza; Gadir è cercata, trovata, perduta, ritrovata, ancora perduta
e ritrovata in uno scenario da fine del mondo nel quale anche le indicazioni di Melqart si confondono nella mente dei suoi inviati.
Nella notizia di Strabone rimane pochissimo di una originaria tradizione fenicia; il dio che
dispone, attraverso l’oracolo, la fondazione di Gadir è certamente il dio della città di Tiro,
Herakles-Melqart, e la spedizione verso Occidente, da lui ordinata, è senz’altro una spedizione
ufficiale, organizzata dal regno tirio; la scelta del nuovo insediamento è scandita
dalla creazione di un santuario dello stesso Melqart che viene eretto in un’area esterna a quella
scelta come sede della prima comunità civile. I dati, per quanto scarni, sono importanti
e convergono con una serie di indicazioni offerte sia dalle fonti che dall’archeologia: il
ruolo primario di Tiro nella fondazione del circuito mercantile fenicio nell’estremo Occidente, l’impronta di impresa di stato che assumono le spedizioni navali, l’importanza del culto di Melqart
che segna, fisicamente, attraverso l’edificazione di santuari a lui dedicati, l’iniziativa commerciale
dei Fenici in Occidente. Il racconto di Strabone, peraltro, si muove all’interno di una prospettiva culturale greca che con la fondazione «storica» di Gadir ha poco a che fare: la spedizione tiria si cimenta nel riconoscimento dei luoghi estremi di localizzazione delle imprese di Herakles così che la fondazione gaditana, pur da un piano mitico, può contribuire al dibattito sul posizionamento delle famose stelai dell’eroe; si è riconosciuta, inoltre, nell’esposizione dei reiterati tentativi di fondazione, nei primi due casi smentiti dagli auspici, una polemica, neppure troppo velata e tutta greca, sull’‘insufficienza oracolare’ del dio archegetes fenicio o perlomeno dei suoi esecutori, scelti per il riconoscimento dei luoghi, in rapporto alla ‘veritiera’ e più precisa mantica delfica e al suo ruolo di promotrice di iniziative di ktiseis destinate a funzionare, in genere, ‘al primo colpo’,
vuoi per le precise indicazioni del dio, vuoi per l’abilità degli uomini nel riconoscere i segni richiamati da Apollo.


 Se tale è il contesto culturale della narrazione, sembrano del tutto vani i tentativi, a più riprese argomentati dalla critica storica e archeologica, di voler leggere nel passo una ‘stratigrafia’ della frequentazione fenicia nell’estremo Occidente, sia in senso generale, sulla base di un altro noto passo di Strabone, sia ancorando nei dettagli i tre tentativi della fondazione di Gadir a diverse correnti di presenza egeo-orientale distribuite nell’area iberica, attraverso i ‘micenei’, i sea peoples, i siriani e i cipro-fenici. Nell’ambito della verosimiglianza storica, cioè di quanto, con una certa solidità di dati e di ragionamenti, possiamo ritenere un quadro convincente ed affidabile della fondazione storica di Gadir, il racconto straboniano presenta un altro aspetto interessante: la casualità della terza e ultima spedizione, la quale, apparentemente poco interessata alla ricerca di riscontri all’oracolo nei luoghi delle imprese eraclee, fonda direttamente il proprio insediamento, decidendo in qualche modo di risolvere e recuperare in modo drastico e autonomo le difficoltà e le ambiguità dei due viaggi precedenti. Questa Gadir nata da una sorta di sfinimento e esasperazione oracolari non ha niente a che vedere con il dato reale, storico, della scelta mirata e strategicamente orientata della fondazione di Cadice, quale si coglie nella precisa e voluta scelta da parte dello stato tirio delle isole gaditane come sede di un insediamento mercantile pienamente inserito, sia geograficamente che sul piano socio-economico, in una rete complessa di scambi e di intermediazioni avviato dalle comunità tartessiche fin dalle fasi finali dell’età del Bronzo e suscettibile, proprio attraverso la presenza dell’emporio gaditano, di essere sfruttata, trasformata e rivitalizzata. Sotto questo profilo, e a livello del pregnante spessore ideologico che una fondazione ufficiale comporta, le isole gaditane, le Kotinoussa, Erytheia e Antipolis, sulle quali la ricerca scientifica si accanisce nel tentativo di disegnare un quadro convincente della antica geografia fisica e politica gaditana, furono forse assimilate, nell’immaginario dei naviganti fenici, poi ratificato a livello rituale dalla dedica a Melqart, alle rocce erranti dalle quali, per volere dello stesso dio, nacque Tiro, quelle ambrosiai petrai richiamate dalle due colonne preziose del tempio tirio di Melqart e che ornavano, significativamente, anche il santuario gaditano. L’altissima cronologia che le fonti sostengono per la fondazione del tempio di Melqart su una delle ‘rocce erranti’ della baia gaditana non può oggi essere mantenuta come dato fondante di una espansione fenicia verso Occidente, neppure come lettura evocativa di frequentazioni preparatorie alla strategia organizzata dei traffici tirii. I quadri archeologici del settore costiero della baia, principalmente legati allo straordinario piedà- terre del Castillo de Dona Blanca, ma anche i dati che affluiscono sempre più significativi sul percorso interno dei materiali e delle influenze fenici lungo il corso del Guadalquivir e del Guadalete, non consentono di risalire oltre la prima metà dell’ottavo secolo a.C.;
anche adottando le calibrazioni cronologiche proposte di recente per l’area iberica, il XII e l’XI sec. a.C. restano periodi ancora lontanissimi dal fenomeno dell’espansione mercantile fenicia in Occidente. In linea generale, e sulla base dei riscontri archeologici disponibili, non pare ancora giustificato distaccarsi da quella che alcune fonti indicano come una linea coerente di continuità e
di progressione: dalla «misteriosa » fondazione di Auza nella Libye durante gli anni del regno
di Ittobaal (887-856 a.C.) a quella di Utica, che per Giustino è già in vita quando Elissa giunge sulle coste tunisine, a quella di Cartagine, fissata da una doppia tradizione all’814 a.C., una data non troppo distante dai tempi indicati dai più recenti ritrovamenti di materiali arcaici sul sito della Karth
Hadasth d’Occidente. Una straordinaria, recentissima conferma a questo quadro c onologico viene oggi dalla stessa Cadice, dove finalmente sono apparsi livelli archeologici coerenti riportabili, per il
materiale rinvenutovi, entro la prima metà dell’VIII secolo a.C.; una scoperta che allontana definitivamente ogni scetticismo sulla grande e antichissima Gadir fenicia ricordata dalle fonti.
Tutto fa peraltro ritenere che, pur nella sostanziale concomitanza delle cronologie più antiche,
le situazioni e le strategie che hanno dato vita agli insediamenti fenici mediterranei e atlantici siano profondamente diverse e che una possibile interpretazione debba tentare di evitare un appiattimento
di problematiche e di tematiche che dovevano essere altrimenti complesse e differenziate; in questo senso, è verosimile che il circuito atlantico, compreso tra la baia e le isole gaditane, l’approdo
marocchino di Lixus alle foci del Loukkos e la sterminata rete d’acqua del Tago portoghese,
rispecchi complessivamente il milieu geografico più antico della strategia dell’espansione mercantile tiria in Occidente.
2. Le terre mobili
Le frontiere occidentali nelle quali si snodano e articolano le vicende dell’espansione fenicia disegnano paesaggi «marginali», al limite tra la terra e il mare; la dimensione insulare ne è il modello più rappresentativo, tale da superare il dato geografico e morfologico per costituire un vero e proprio paesaggio mitico, uno spazio ideologico, elemento fondante della scoperta dell’Occidente e della specificità fenicia di essa. Su questo scenario di «terre mobili», divise e circondate dalle acque marine e fluviali, operano, come segni di riconoscimento e di antico possesso, le imprese e le opere di dei ed eroi; per i naviganti tirii l’insularità occidentale è la ripetizione rituale della fondazione mitica, continuamente riproposta, della propria città, Sur, la roccia in mezzo al mare. Le isole scandiscono le tappe della navigazione fenicia, dall’Egeo all’Atlantico; isole grandi, come Creta, Cipro, Malta, la Sicilia e la Sardegna, le Baleari, periferie di grandi terre avvolte nel mare, nelle quali i Phoìnikes si insediano scegliendone le parti estreme, liminali oppure ritagliandone spazi ancora più frammentati e mobili, le isole dentro e di fronte alle isole: Mozia in Sicilia, Karales, Bitia, Sulci e San Pietro in Sardegna. Altre insularità si affacciano di fronte alle masse continentali o si spingono al loro interno attraverso il mare, le foci e le spire fluviali: Rachgoun, Toscanos, Morro de Mezquitilla, Lixus, Gadir, Abul. Il mare, le isole, la navigazione e gli scambi segnano profondamente, improntano in modo peculiare la fisionomia culturale dei Fenici; ci si è domandato, anche di recente, quanto questa immagine sia reale, storica, insomma ‘fenicia’ in senso strutturale, e non provenga invece da un’amplificazione arbitraria moderna, da una sorta di fraintendimento nato dalla prevalenza documentaria, nella ricostruzione della cultura e della società fenicie, sui modi e le forme della presenza fenicia in Occidente, nella quale gli aspetti dell’attività mercantile sono maggioritari. In realtà il dubbio sembra del tutto immotivato: il ruolo preponderante e caratterizzante di intermediazione negli scambi nell’area vicino-orientale ed egea appartiene alla nascita stessa della specificità fenicia, come sviluppo di una tradizione ben radicata e assai più antica, risalente almeno al III millennio a.C., che distingue gran parte dei centri costieri siriani e cananei compresi tra il golfo di Alessandretta e il monte Carmelo.
Il graduale sviluppo economico di Tiro, la città protagonista dell’exploit mercantile verso l’Occidente mediterraneo, procede fin dall’XI secolo a.C. attraverso una organica esplorazione delle
potenzialità commerciali dei paesi circostanti e dei grandi imperi interni, facendo delle navigazioni
marittime di tipo acquisitivo un elemento portante, di significato e di spessore. Nei due secoli successivi la monarchia tiria organizza e favorisce la nascita dei suoi primi enoichismoi oltremarini; se le navi dirette a Kition sulla costa di Cipro muovono lungo vie d’acqua
ben note e di facile e breve percorrenza, i viaggiatori che approdano ad Auza o nel golfo di Tunisi hanno da superare un mare vasto che si infrange su spiagge incognite; Tartessos, l’Eldorado di Iberia, in cui l’argento sprizza dalla terra, è ancora più oltre, ma già il cammino è segnato dai passi e dalle opere del dio poliade tirio, Melqart, così come a Lixus, stretta tra le spiraleggianti e tortuose anse del Loukkos. Su questi lidi i Phoìnikes disegnano, attraverso la progressiva conoscenza geografica e culturale dei luoghi, i propri orientamenti ideologici tramite il paesaggio del mito; in questa «riscoperta e riappropriazione» dell’Occidente le tradizioni sulla nascita di Tiro diventano, come si è detto, elemento fondante e prioritario della insularità fenicia occidentale. Nonno di Panopoli nel III secolo d.C. riporta una delle due versioni tramandate dalle fonti antiche sul mito della fondazione di Tiro; è Herakles-Melqart, qui presentato nella particolare caratterizzazione cosmica e universale che assume il dio poliade di Tiro nella corrente mentalità del tempo, a indicare ai suoi fedeli le vie del mare, il cui attraversamento li porterà al luogo santo prescelto per la fondazione della città. La destinazione di questi primigeni marinai sono due isole, mobili ed erranti sul mare, le ambrosiai petrai sulle quali Melqart ha posto i segni prodigiosi della sua presenza; con il primo sacrificio che i naviganti rivolgeranno al dio le rocce si fermeranno, salde per sempre nel mezzo del mare; qui nasceranno, per volontà di Melqart, la sua città e il suo santuario. Tiro è fondata quando gli abitanti del continente, sempre istruiti dal dio, imparano l’arte di andare per mare; ma ad essi, novelli ma ispirati esploratori delle vie d’acqua, Melqart insegna anche il controllo delle terre liminali, quelle isole ‘mobili’ in mezzo al mare che potranno, con un rito, essere fermate.
3. Le isole perdute: i fantasmi fenici di Thasos
Nella fase attuale di sviluppo della ricerca, l’esame della espansione fenicia in area greca si lega
sostanzialmente a due tipi di dati e di evidenze, i quali non consentono quasi mai un trattamento
unitario: da un lato le notizie che di questo fenomeno hanno tramandato le fonti antiche, dall’altro le testimonianze archeologiche dirette di una presenza fenicia nell’Egeo. Esiste a monte, inoltre, un discriminante più generale, che opera, a seconda della scelta di campo che si professa, una sorta di condizionamento cronologico: chi ritiene che la nascita di una specificità fenicia nella fascia costiera siropalestinese non possa risalire oltre il 1200 a.C. dovrà di conseguenza espungere dalla sua trattazione i densi rapporti intrattenuti con il Vicino Oriente dalle popolazioni di cultura micenea; viceversa, questi ultimi diventano vitali per quegli studiosi che ritengono di poter parlare a buon diritto di ‘fenici’ nel II (se non nel III) millennio a.C. È in ogni caso fondamentale ricordare che i testi micenei in lineare b conservano nel termine po-ni-ki-jo la testimonianza della conoscenza di un etnico che, dal punto di vista linguistico e semantico, non è altro che un precedente dell’appellativo omerico dato ai naviganti orientali, phoìnikes appunto. Si può discutere se i Fenici dei testi micenei siano, geograficamente e culturalmente, del tutto affini ai Phoìnikes omerici, ma questi ‘uomini dalla pelle rossa’ sono ben noti e presenti alle comunità micenee degli ultimi secoli dell’età del Bronzo. A questo periodo, in ogni caso ad una fase precedente quella complessivamente documentata dall’archeologia, riportano le notizie delle fonti; ma anche in questo caso la ricerca presenta una tendenza costante verso il rialzamento cronologico, dai contesti funerari di Lefkandi di Eubea di X secolo a quelli di IX secolo a.C. documentati ad Atene, Cos, Rodi e Creta; da quest’ultimo sito, in particolare, la coppa iscritta in alfabeto fenicio da Tekke, presso Cnosso, sembra toccare gli anni intorno al 1000 a.C., mentre tra la fine del II e gli inizi del I millennio a.C. si inquadra il tema, ancora fortemente discusso, dell’introduzione dell’alfabeto fenicio in ambito greco. Pur tenendo presente questo contesto generale in forte e continuo mutamento, resta il problema della pressoché totale sparizione di una presenza
fenicia in quei distretti di terra greca in cui essa viene viceversa indicata da molte fonti come elemento primario di colonizzazione e di insediamento; i Fenici, pure celebri fondatori di città e di santuari nell’Egeo, sarebbero stati in seguito schiacciati e annullati dal massiccio sviluppo, in senso tutto greco, degli insediamenti in questa stessa regione. Vi è chi ritiene di poter attribuire questo risultato ad una estrema labilità e frammentarietà della presenza fenicia, connessa all’estemporaneità di semplici ‘toccate e fughe’ di natura commerciale; ma una spiegazione di tal fatta non risulta convincente nel momento in cui si scontra
con le indicazioni precise delle fonti che sembrano invece conoscere un tipo di presenza del tutto diversa, in molti casi forte e ben organizzata, strutturata inoltre a precisi cicli mitici e legata al culto di importanti e caratterizzanti figure divine ed eroiche di ambito fenicio, connesse nella mentalità fenicia a precisi momenti
e vicende di fondazione e di stanziamento. Un caso particolarmente indicativo è il corpus fenicio su Thasos, a iniziare dal suo nome, ricalcato su quello del fondatore eponimo, Thasos, figlio di Phoinix a detta di Erodoto e appartenente al ramo cadmeo dell’espansione fenicia in area greca. Thasos è inoltre legato alla successiva penetrazione fenicia sul continente tracio, in rapporto con lo sfruttamento delle ricche risorse minerarie della regione; una figlia dell’eponimo prende il nome di Galepsos, che è anche la denominazione
di un comptoir tasio, in questo caso fenicio, impiantato in Tracia; lo stesso Cadmo, del resto, ha per primo sfruttato le ricchissime miniere del monte Pangeo, che fronteggiano l’isola di Taso. Erodoto ci fornisce in proposito anche una testimonianza autoptica; egli ha potuto vedere sull’isola di Thasos, tra le località di Ainyra e Koinyra, le minere aperte e sfruttate dai Fenici. I dati richiamati devono essere valutati con
estrema attenzione se non altro perché il fenomeno che essi evocano è sostanzialmente assai simile alla situazione che la ricerca archeologica ha recuperato nel comparto minerario dell’estremo Occidente, nel regno tartessico dell’argento: una installazione insulare a Gadir, con la fondazione di un centro urbano e di un santuario, una parallela penetrazione sul continente in ambito indigeno (Castillo de Dona Blanca), l’attivazione di percorsi verso le ricche aree minerarie interne e una larga diffusione che si sviluppa intorno al fulcro che ospita e governa le stesse risorse (area di Huelva). Gadir come Thasos, l’oro del Pangeo come
l’argento di Tartessos, la penetrazione lungo il Guadalquivir come l’emporio di Galepsos, ma non solo: altre fonti attestano la presenza di Cadmo in Samotracia, di uno scalo fenicio a Lemno, di Fenici nel nord-Egeo in quelle che significativamente vengono indicate come «stations héracléennes»; con quest’ultima denominazione di nuovo torniamo a Melqart che, nel caso di Gadir, ha guidato i suoi esploratori alla ricerca
delle famose colonne; e, non a caso, Erodoto conosce un tempio di Melqart a Taso. Il tempio del dio tirio è il luogo attraverso il quale si sviluppa l’attività ‘ionica’ dei Fenici; una struttura ben organizzata ma anche uno spazio neutrale, utile a intessere rapporti apparentemente equilibrati con genti e culture diverse, una struttura la cui possibile modesta entità fisica non coincide certo con la sua grande importanza ideologica e socio-culturale l’archeologia potrà non riuscire mai a raggiungerlo, ma questo non ci autorizza a definirlo, storicamente, con i termini della precarietà e della labilità.
4. Pitecusa, a oriente dei confini del mondo
Nella cornice generale di quel Mediterraneo in movimento che caratterizza le frontiere dell’Occidente tra l’VIII e il VII sec. a.C., i rapporti intessuti tra i Greci dell’avamposto euboico di Pitecusa nel golfo di Napoli e le correnti di frequentazione mercantile dei Phoìnikes attivate tra la Sicilia e gli spazi atlantici al di là delle colonne d’Ercole sono divenuti un importante e sempre rinnovato elemento di riflessione e di confronto
critico. All’interno di questa problematica la tendenza ad isolare geograficamente tali rapporti e interrelazioni all’area centro-mediterranea, considerando Cartagine interlocutrice primaria di Pitecusa
e, in qualche modo, distributrice del materiale euboico e pitecusano nelle aree immediatamente contigue e in quelle più periferiche dell’espansione fenicia, non appare per nulla convincente. Ceramica prodotta a Pitecusa è infatti attestata, anche se in quantità molto più modesta rispetto ai ritrovamenti cartaginesi e sardi, in Iberia, sia nell’area tartessica di Huelva che nella ‘provincia’ fenicia costiera dell’Andalusia meridionale; alla testimonianza della ceramica bisogna inoltre aggiungere, ancora una volta a iniziare dall’evidenza
di Toscanos, contatti di tipo tecnologico in atto nella sfera dell’estrazione e manifattura dei metalli, come dimostra la circolazione, in ambiente fenicio e ischitano, di tipi analoghi di tuyères. La presenza euboica nell’area dello Stretto è indiziata inoltre da una serie significativa di notizie tramandateci dalle fonti, la cui importanza non sembra opportuno sottovalutare: dall’attribuzione all’eroe euboico Briareo della titolarità delle colonne che segnano gli estremi del mondo, all’impresa di Herakles nei possedimenti iberici di Gerione, alla presenza delle katoikiai greche sulla costa atlantica del Marocco. Certamente la concentrazione di ceramica euboico-pitecusana a Cartagine è notevole, così come il contesto culturale che una parte di essa
assume all’interno della comunità fenicia di fondazione tiria; mi riferisco alla presenza di vasi greci di tipo euboico negli strati arcaici di vita del tofet cittadino, la quale è un fortissimo indizio di una presenza stanziale greca all’interno dell’etnia fenicia, a questa legata da vincoli familiari e di convivenza quotidiana. Questo particolare aspetto del rapporto fornisce spunti interpretativi ben diversi da quelli riportabili ad una semplice circolazione di oggetti legati al commercio, come potrebbe inferirsi dagli oggetti provenienti dagli scavi dell’abitato arcaico e dalla necropoli. Altrettanto cospicua è la presenza di materiale euboico e di prodotti elaborati o filtrati da Pitecusa nell’insediamento fenicio di Sulci, sulla costa occidentale della Sardegna; la fisionomia complessiva dei materiali, vicina anche se non completamente assimilabile a quella cartaginese,
indica anche per il caso sardo, grazie alla documentazione del tofet locale, un fenomeno di convivenza e di vita comunitaria all’interno dell’insediamento fenicio, con riscontri di grande importanza anche esterni ma complementari alle testimonianze ceramiche e che coinvolgono, insieme ai greci e ai fenici, le comunità indigene e i traffici atlantici: è il caso della presenza in area sulcitana, cartaginese e ischitana della fibula à
doble resorte. La non necessaria dipendenza del materiale euboico della Sardegna da Cartagine è avvalorata dalla precocità con la quale oggetti di questa cultura circolano, insieme a produzioni ‘orientali’ e fenicie, nell’emporio costiero di Sant’Imbenia, aperto sul golfo di Alghero nel corso della seconda metà del IX sec. a.C.; l’attestazione sarda della coppa decorata a semicerchi penduli, ad esempio, senza riscontri né a Pitecusa né a Cartagine, indica orizzonti complessivamente più antichi di frequentazione e dimostra come il circuito euboico-fenicio nell’Occidente prescinda dai rapporti tra Pitecusa e Cartagine e costituisca, se mai, il contesto fondante dei due insediamenti, rispettivamente nel golfo di Napoli e nel golfo di Tunisi. In tal senso indirizza anche la produzione di anfore mercantili locali di tipo “orientale”, destinate alla commercializzazione di un vino locale che raggiunge tra l’VIII e la prima metà del VII sec. a.C. la stessa Cartagine; si tratta di un lotto abbondante di quella produzione definita in modo un poco frettoloso come ZitA (Zentral-italischen Amphoren), nella presunzione di una sua fabbricazione complessiva nell’area centro-italica e che veniva impiegata a corroborare una presunta preminenza cartaginese con l’ambiente tirrenico e dell’Italia centrale alla metà dell’VIII sec. a.C. La circolazione di materiale euboico negli
empori frequentati e/o fondati dai Phoìnikes si presenta notevolmente articolata; essa presume la presenza di una interrelazione forte, a partire dalla seconda metà del IX sec. a.C., tra naviganti e mercanti fenici e greci, probabilmente prodottasi nei ports of trade della costa siro-levantina e di Cipro. In prosieguo di tempo, all’interrelazione commerciale si integra e si affianca una esperienza di vita comunitaria, caratteristica di queste giovani e vitali società di frontiera; sono questi i quadri profondi di interrelazione che l’archeologia oggi documenta in piena evidenza nel corso della prima metà dell’VIII secolo sia a Cartagine che a
Pitecusa.
5. Epilogo: Eracle-Melqart ai confini del mondo
Eracle-Melqart ha il possesso dell’Occidente; e, soprattutto, i suoi possedimenti, riconoscibili e
riconosciuti, sono in quel lontanissmo ovest ai confini del mondo, dove i suoi segni attendono gli uomini che tornano a riprendersi le terre ancestrali, per loro acquisite dal dio-eroe: segni potenti, che siano colonne radicate nella terra o pilastri splendenti alle porte di un tempio illustre e famoso per sempre. Su queste terre, terre mobili, conquistate dal dio, Eracle-Melqart è in realtà un raffinato e utile strumento dell’ideologia e del mito; esso permette e legittima il dialogo, il confronto che nasce tra i Greci, i Fenici e gli altri sugli ampi
scenari mediterranei; esso autorizza il reciproco riconoscimento sulle nuove frontiere dell’Occidente.
Attraverso il mito, il mondo muta sembrando immutabile: e si profilano nuove fatiche: le nuove,
attuali, fatiche di Eracle nelle terre dell’emporìa

Fonte: http://www.academia.edu/764002/

Nell'immagine: Il palacio-santuario di Cancho Roano.

2 commenti:

  1. la foto non riproduce il Castillo de Dona Blanca (presso cadice) bensì il palacio-santuario di Cancho Roano.

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