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sabato 25 maggio 2013

Parole, segni e scritti: l'alba della scrittura in Sardegna.



Parole, segni e scritti
di Pierluigi Montalbano

Dal suono al segno
Il cammino dalla parola alla scrittura è un cammino lungo millenni, nel corso dei quali l’uomo ha cercato di fissare la parola fuggevole in qualcosa di duraturo: verba volant, e, deve avere pensato all’inizio, picta manent: nascono inizialmente scritture di tipo pittografico, nelle quali viene riprodotto in disegni il contenuto delle parole: il disegno della casa “scrive” la parola casa.
L’esempio più conosciuto è l’utilizzo dei geroglifici nella scrittura egizia; nella scrittura geroglifica è documentato peraltro anche il valore consonantico dei segni; ad esempio oltre a significare la parola casa il segno grafico può assumere il valore del nesso consonantico cs.

Un simile valore hanno i segni rinvenuti a Serabit el-Khahim, una località del sinai, e perciò detti protosinaitici: derivati dai segni geroglifici, esprimono tuttavia una lingua di tipo semitico, affine al fenicio di epoca storica; si presume abbiano valore acrofonico, indichino cioè il valore della lettera iniziale dell’oggetto descritto; a titolo di esempio, una lettera a forma di “testa” esprimerebbe cioè il valore “t”, una a forma di serpente il valore “s”. L’uso di questi segni grafici risale alla metà del II millennio a.c.
L’adozione della scrittura fenicia si diffonde nell’area siriana-palestinese intorno all’XI-X a.c.: in essa si condensano tutte le sperimentazioni incontrate lungo il percorso; origine pittorica dei segni grafici, valore acrofonico dei simboli, suono esclusivamente consonantico (con l’esclusione dell’alef, prima lettera dell’alfabeto e unica vocale espressa).
Saranno i mercanti fenici a diffondere in tutto il mediterraneo la tecnica scrittoria, anche attraverso la mediazione del mondo greco: già Erodoto nel V a.c. poteva ricordare infatti l’introduzione dell’alfabeto in Grecia attraverso l’adozione delle lettere di origine fenicia.

Contesti supporti testi
L’archeologia per lungo tempo si è interessata principalmente dello studio delle espressioni artistiche delle civiltà classiche; in epoca contemporanea ha spostato e ampliato enormemente il proprio campo d’indagine, occupandosi dello studio (lògos) di tutte le testimonianze delle attività dell’uomo che ci sono pervenute dal mondo antico (archàios), principalmente attraverso lo scavo: vivere e morire, consumare e produrre, costruire, abitare, leggere e scrivere; tutto può lasciare traccia. le epigrafi costituiscono la traccia dell’attività scrittoria nel mondo antico e, alla stregua di tutti i materiali che l’archeologia studia, ricevono dall’analisi del contesto di rinvenimento un’importanza particolare.

Oggi l’epigrafia è epigrafia archeologica.
Studiare “archeologicamente” il dato epigrafico significa non fermarsi al contenuto di lingua, alfabeto e senso del messaggio scritto, ma approfondire la relazione tra il testo, oggetto qualificante dell’indagine epigrafica, e il suo supporto, l’oggetto sul quale è tracciato, il suo luogo di rinvenimento, le modalità di deposizione.
Su cosa è stato scritto quel messaggio: quale oggetto, quale materia è stata scelta?
Dove ho trovato quell’oggetto: una tomba, un sacello, la via di una città?
Come ho trovato quell’oggetto: è nella posizione originale, o è stato spostato, e perché?
Dallo studio archeologico dell’epigrafe riceve un senso più completo anche lo studio del messaggio epigrafico: non solo parole, ma un dialogo avvenuto in un luogo e tempo dato, con un preciso motivo.
Chi ha scritto? Per chi ha scritto? Per cosa ha scritto?
Questa mostra nasce per porsi alcune di queste domande, in relazione ad alcune delle più antiche testimonianze della scrittura in Sardegna; con l’auspicio di imparare, da archeologi, a porgersele ogni volta che il terreno avrà la generosità di restituirci ancora una volta un frammento di scrittura dell’antichità.



Incontri e innesti

C’è un via vai incredibile di uomini, navi, merci, lingue nel mediterraneo dei primi secoli dell’ultimo millennio avanti Cristo!
Le rotte già percorse in età micenea dall’egeo verso il tirreno si intensificano, si strutturano: vengono lanciate teste di ponte per conoscere nuove terre, popoli, civiltà. le isole sono tasselli fondamentali di questa strategia: Sicilia, Sardegna, Ischia restituiscono le tracce lasciate dai navigatori fenici, euboici, ciprioti.
L’incontro con l’altro avviene innanzitutto tramite la parola; e spesso la parola per essere compresa e ricordata deve essere scritta. la Sardegna nuragica in trasformazione, tra influenze e interferenze culturali, restituisce le prime testimonianze della circolazione della scrittura, attraverso i primi segni iscritti su lingotti a pelle di bue e su panelle metalliche, nonché su brocche askoidi e bronzi miniaturistici di fattura locale.

L’incontro tra fenici e nuragici lascia da subito segni scritti: dal Golfo di Alghero al Golfo degli Angeli, gli empori presso cui approdano i fenici sono testimoni del rapporto dialettico tra culture. e dalla costa la parola viaggia verso l’interno; a Sant’Imbenia un sigillo di produzione locale riprende e adatta segni orientali; la ceramica fonde tradizioni nuragiche e fenice, mentre i nomi graffiti sono fenici (forse abi’ezer; abdaziz, forse abda’al); sulla stele di Nora è tracciata in lettere fenicie l’espressione “b’ srdn”, “in Sardegna”.
Lo spillone di bronzo rinvenuto ad Antas contiene quattro lettere per le quali sono state proposte interpretazioni diverse, di grafia e di lingua (fenicio? greco?).
Dal momento della sua introduzione la scrittura diviene strumento primario di comunicazione; si moltiplicano le lingue e le scritture, al fenicio di provenienza orientale si affianca a partire dal IV a.c. la scrittura punica di derivazione cartaginese, cui seguirà l’introduzione della scrittura neopunica.

Alcune iscrizioni forniscono testi in più lingue, funzionali alla comprensione di una società integrata e composita, fatta di soggetti parlanti lingue diverse: sulla base di altare in bronzo di San Nicolò Gerrei il dio è insieme Eshmun fenicio, Asclepio greco ed Esculapio latino. alcune epigrafi testimoniano la presenza di soggetti parlanti una determinata lingua in contesti etnicamente differenti (è il caso dei primi testi fenici in Sardegna), in altri casi documentano la sopravvivenza di una lingua o di un sistema scrittorio ben al di là dell’utilizzo corrente di quell’idioma, come accade con la tarda iscrizione commemorativa da Bithia, nella quale i caratteri rivelano una tradizione indipendente dal neo-punico, adattata per trascrivere parole ormai pienamente latine come i nomi propri e il titolo dell’imperatore.
Contesti
Un testo scritto assume un significato e riferimenti diversi a seconda del luogo e del modo in cui è steso; pensiamo ad un nome di persona tracciato vicino al campanello di casa, sul registro dell’anagrafe, sulla lapide di una tomba: lo stesso testo significa di volta in volta “egli vive in questo luogo”, “egli appartiene a questa comunità”, “egli è colui che è morto e giace qui”.
È per questo che studiare archeologicamente un’epigrafe significa innanzitutto interrogarsi sul rapporto tra quel testo e il luogo in cui è stato rinvenuto; domandandosi di volta in volta quale significato ricevono le parole da quella specifica collocazione.

L’attenzione al contesto di scavo non ha ricevuto nel tempo la stessa attenzione e, ancora in anni recenti, l’archeologia si è rivelata a volte più interessata al ritrovamento di oggetti significativi che non alla lettura di tutti gli oggetti nell’ambito del luogo di rinvenimento: è così che un certo numero di epigrafi giunte fino a noi risultano “prive di contesto” e solo in via ipotetica possono essere associate ad una determinata collocazione.
Nell’ambito delle ricerche archeologiche la disciplina ha imparato a riconoscere dei contesti privilegiati dove, più che altrove, si concentra e si appunta il messaggio scritto: sono i luoghi privilegiati della comunicazione, strutturalmente dedicati al dialogo con l’altro da sé, la necropoli dove dialogare con i defunti, le aree sacre per rivolgesi agli dei, la città ove comunicano gli uomini.
Le due anfore da Sant’Avendrace sono state deposte come offerte in una tomba: l’iscrizione ne ricorda questa loro funzione; il cippo da Tharros menziona invece se stesso (mnşbt, stele) e le generalità del defunto (ktm bn yšbl, ktm figlio di yoshibaal).

Diverso il tono delle iscrizioni provenienti da aree sacre, dove prevalgono i concetti di offerta e devozione alla divinità: l’iscrizione votiva da nora riporta il nome del dedicante (bd’ bn cbd’, bodo, figlio di abdo), il cippo dal tofet di Sulci, che parla a nome del dedicante, si offre “al signore baal hammon”.
In abitato è più facile imbattersi in “cocci iscritti”, testi brevi, a volte minimi, un nome, una misura su un vaso: i numerosi frammenti ceramici iscritti, provenienti da un’area produttiva ai piedi del Monte Sirai rappresentano verosimilmente marchi di fabbrica e segni che identificano officine e produttori diversi.
Supporti
Su tutto, ancor oggi, si può scrivere, dal muro al fazzoletto di carta; e su quasi tutto si scrive e si è scritto. i testi antichi giunti fino a noi sono in parte condizionati anche dalla conservazione del supporto: testi su supporti più fragili, papiri, pergamene, tele, si sono perduti più facilmente di quanto non sia accaduto a materiali più durevoli, come la pietra, l’argilla, il metallo, ma anche l’osso o la vernice sulla superficie di un coccio; l’importanza e la “durabilità” di un testo condizionano il rapporto con il supporto fin dall’origine.
Scritti nati per essere letti a lungo hanno scelto materiali più durevoli: trattati, leggi e contratti sono stesi di preferenza sul metallo.
Testi nati per rimanere esposti a lungo alle intemperie, come una lapide in una necropoli, un’offerta alla divinità nel cortile del tempio si sono adattati di preferenza su superfici di pietra; ma abbiamo anche L’esempio di una dedica ad Eshmun su una mano in argilla prodotta a stampo, forse testimone di un tempio nella zona di stampace a Cagliari.
L’argilla può ospitare anche testi brevi, veloci, che possono passare di mano in mano; a volte è il contenuto stesso dell’epigrafe a risultare direttamente correlato al proprio supporto: testi su frammenti di vasi possono avere a che fare con il nome o la dimensione dello stesso recipiente; in questo senso, singoli segni su frammenti di vaso sono stati interpretati con valore numerico legato alla capacità dell’oggetto; analogamente la pietra può dichiarare attraverso l’epigrafe di essere una stele, un cippo (vedi anche la sezione “oggetti parlanti”).
Non mancano nemmeno supporti di maggior pregio: a volte è l’oggetto prezioso a determinare l’iscrizione, come la coppa in argento da Sulci, dedicata a Baal Addir proprio in virtù del suo pregio; a volte viceversa è il contenuto del testo a richiedere un supporto particolare: formule magiche, invocazioni, preghiere alla divinità, pur presenti su ogni tipo di materiale, prediligono le superfici preziose dell’argento e dell’oro; a volte infine è un bene di pregio in sé, come l’orecchino d’oro da Antas, ad ospitare minuscole lettere, forse legate alla funzione votiva dell’oggetto.

Nomi di uomini e nomi di dei
È importante chi scrive ed è importante per chi si scrive; in una società in cui ancora la scrittura è patrimonio prezioso, non diffuso a tutte le componenti della comunità, i nomi di persona, accanto ai nomi di divinità, assumono un rilievo particolare e risultano assai diffusi nei testi che ci sono pervenuti.
Si potrebbe quasi dire che è rara un’epigrafe che non contenga almeno un nome proprio: segno di una funzione primaria della scrittura nella qualificazione di chi scrive o comunque acquisisce un testo scritto.
alla scrittura si attribuisce il compito di perpetrare il nome proprio e quello dei propri antenati, soprattutto per ricordare opere importanti: è ciò che fanno i costruttori di un santuario di Cagliari, forse ad Eshmun, come rileverebbe la mano fittile con iscrizione rinvenuta poco distante, ricordando su un piccolo cippo in marmo i propri nomi e ruoli, Adonibaal e Baalshillek che realizzarono l’opera, Eshmunyaton, il sufeta, Bodmelquart e Germelqart che sovrintendono all’opera insieme ad altri; l’artefice dell’opera designato come architetto è un liberto di nome Akbor; un ruolo servile ha anche Abdo, colui che realizzò un altare alla divinità, ricordato su una placchetta in bronzo da Monte Sirai: al suo nome segue quello del padrone Germelquart e dei suoi antenati, segno di un legame quasi di identificazione tra il servo e la famiglia presso cui si trova.
La dedica da Olbia ripercorre a ritroso la famiglia fino alla sedicesima generazione, risalendo dunque nel tempo di circa quattro secoli; il dedicante dice di appartenere a qrthdšt, “Cartagine”, impossibile dire se quella d’africa o un'altra con nome uguale.
Il nome proprio, insieme a quello del coniuge e degli antenati, è spesso l’unico elemento che caratterizza le iscrizioni funerarie.
Numerose sono invece le dediche votive, in cui si ricordano i nomi delle divinità, accompagnati a volte da aggettivi e attributi: la dea Astarte, cui è dedicato un altare ricordato su una piccola lastra di calcare da Capo Sant’Elia, è detta di Erice, proprio come la corrispondente venere romana; nel santuario di Antas sono ricordati Sid, di volta in volta indicato come “potente Babai”, “il grande”, “potente”, Melqart “sulla roccia”, Shadafra.

Lo stesso Melqart compare su di un cippo rinvenuto a Santa Gilla e su di una dedica di un tempio, anch’essa con lunga genealogia e nomi dei sufeti da Tharros; il nome di Tanit compare invece sull’orlo di un vaso a vernice nera da Nora; Eshmun, sulla base di San Nicolò Gerrei; Pumay, divinità cipriota, sulla stele di Nora.
Messaggi
La scrittura è uno strumento riservato a pochi; analogamente il suo contenuto, perlomeno quello pervenuto a noi, presenta un numero in fondo piuttosto limitato di variazioni; le modalità del testo epigrafico appaiono piuttosto ricorrenti e spesso ripetitive, i contenuti degli scritti si limitano ad un numero poco variato di significati.
Colpisce soprattutto l’aspetto formulare dei testi giunti fino a noi: bisogna ricordare che le iscrizioni che leggiamo fanno spesso parte di precise “liturgie”: il ricordo del defunto, l’offerta votiva, la dedica alla divinità. come in tutti i testi legati ai rituali anche l’aspetto conservativo fa in qualche modo parte del cerimoniale consolidato nel tempo, sempre identico per assicurarne efficacia.
Le formule ricorrenti variano di poco anche nel confronto tra i diversi rituali attestati; nelle iscrizioni di tipo funerario viene menzionato ovviamente il defunto, per lo più accompagnato dalla sola menzione del supporto epigrafico (cippo di…, tomba di…)
La formula delle iscrizioni di tipo dedicatorio prevede la menzione della divinità a cui è dedicato il bene che viene offerto, l’oggetto stesso della dedica, un altare, una stele, un santuario, a volte il luogo dove si effettua la dedica (“nell’isola dei falchi”; “in Sardegna” nel caso della stele di Nora) e il momento in cui la dedica è formulata, normalmente nella forma “nell’anno dei sufeti …”, e naturalmente nome e genealogia del dedicante; in casi più rari viene ricordato il motivo della dedica: “perché ha ascoltato la sua voce…”, “lo ha guarito…”, “ha ascoltato la sua voce molte volte”.
Nel caso delle iscrizioni votive spesso la menzione del bene che viene offerto come ex voto alla divinità è assorbita nel bene stesso, un vaso, una stele, una statua in terracotta, che a sua volta reca direttamene l’iscrizione, rendendo dunque evidente il contenuto del voto: l’iscrizione si limita pertanto spesso alla formula “voto di …”
In molti casi nella formula epigrafica è lo stesso oggetto a parlare di sé; formule particolari sono infine quelle legate ai contenuti magici e scaramantici.
Oggetti parlanti
A volte sono gli oggetti stessi a parlare: in prima persona o attraverso un riferimento più o meno diretto. il testo dell’epigrafe dà in questo modo voce al proprio supporto che, attraverso il testo, si rivolge al lettore allo scopo di rivelare la propria natura, la funzione, il nome del proprietario.
È il caso delle stele funerarie, che oltre al nome del defunto riportano anche il nome dell’oggetto stesso, mnsbt, “stele”; accade anche in alcune epigrafi dedicatorie, in cui l’oggetto della dedica è lo stesso supporto dell’epigrafe: la base da San Nicolò Gerrei (vedi la sezione incontri e innesti) menziona l’altare, mzbh, da lei sorretto; analogamente altri oggetti costituiscono al tempo stesso supporto e contenuto del voto effettuato alla divinità, come nel caso della coppa ionica menzionata più avanti.
A volte il riferimento può essere molto semplice, anche il singolo nome del proprietario, zb'l,' come recita l’anello d’oro dalla necropoli di Nora.
Vi sono inoltre casi in cui, pur senza che l’epigrafe esprima direttamente la “voce” del proprio supporto, il riferimento del testo è direttamente collegato all’oggetto su cui le parole si dispiegano; vi sono ad esempio indicazioni di misura, come il peso e la capacità del recipiente: in alcuni casi semplici lettere con valore numerale, come potrebbero essere alcune singole lettere sulle brocche askoidi e sulle accette miniaturistiche in bronzo, tra le più antiche tracce di scrittura presenti in Sardegna; in altri casi testi di notevole ampiezza, come l’epigrafe dedicatoria che descrive, sull’orlo di una coppa ionica in argento da Sulci, la coppa stessa, oggetto della dedica, e il suo valore ponderale. la coppa viene definita sakat, termine per indicare questa particolare forma, allo stesso modo in cui un’iscrizione tracciata sotto la base di una coppa in ceramica attica da Neapolis leggibile come qtn riporterebbe il nome del kothon, nome di un vaso di origine greca.

La magia del segno
Col termine magia ci si riferisce a pratiche, formule o gesti che permettono di avere effetti nella realtà tramite l’invocazione di dei e l’utilizzo di oggetti particolari. in ambito fenicio-punico la magia era penetrata capillarmente nella mentalità della popolazione, che affidava la propria protezione a vari oggetti, quali amuleti e talismani, depositari di potere magico.
Piastrelle in pietra o argilla, iscritte con formule di maledizione o incantesimo, erano poste generalmente all’ingresso delle abitazioni o nelle tombe.
Particolare valore apotropaico rivestono le laminette in metallo o in materiale deperibile (stoffa, cuoio, papiro), contenute entro appositi astucci porta – amuleto, decorate con motivi di ispirazione egizia, che dovevano assicurare vita eterna al defunto e protezione ai vivi: in alcune di esse sono presenti iscrizioni che invocano la tutela divina in favore del dedicante, come le laminette in argento di Tharros, con scene di processione e richieste di aiuto e benedizione alle divinità: in una è raffigurata una barca con due divinità su trono precedute da sette personaggi con in mano scettro e croce ansata – ankh, simbolo di rinascita; l’altra raffigura un corteo di divinità e ha incisa una richiesta di protezione e benedizione.

Gli astucci, dapprima semplici cilindretti lisci o scanalati con anello di sospensione, ben presto divengono più elaborati: i più rappresentativi sono quelli a protome di animale simboleggiante la divinità. ancora oggi nell’oreficeria sarda sopravvive la produzione di astucci in metallo prezioso - sos breves e sas nuscheras- entro i quali vengono inseriti frammenti di stoffa o carta con parole magiche, preghiere, immagini che mantengono lo stesso valore protettivo e scaramantico.
L’alfabeto, per la sua stessa origine, legata alla forma dei segni e al loro ordine di successione, esprime formule augurali riportate perlopiù su oggetti pertinenti alla sfera religiosa, in cui si chiede la benedizione sia in vita che in morte.
La combinazione di segni alfabetici e disegni e il loro ripetersi costituisce il formulario magico - religioso di un vaticinio, esemplificato nell’epigrafe su intonaco rinvenuta sul muro di un probabile edificio di culto nel tophet di Tharros.
Un tipo particolare di formulario in ambito fenicio-punico era inoltre quello costituito da invettive e maledizioni contro gli eventuali violatori della dimora del defunto, della proprietà privata o i potenziali danneggiatori del dono votivo.




L’Alba della scrittura in Sardegna
di Paolo Bernardini

Iniziamo con due citazioni, una antica e una moderna. La prima è tratta dalla “Storia Naturale” di Plinio che afferma: “Nulla dies sine linea”, un’espressione che possiamo interpretare come l’entusiasmo intellettuale dello studioso, il quale dichiara che non passerà giorno senza mettere per iscritto i suoi pensieri. Ma possiamo anche estendere questa riflessione all’intero mondo, che è ormai ben conscio che tutte le sue antichità intellettuali e pratiche non possono essere svolte con soddisfazione se non con l’ausilio della scrittura. La seconda citazione, molto più recente, si deve alla firma di una personalità dell’archeologia egea, Louis Godard che si esprime in questi termini: la scrittura nasce come “strumento atto a favorire lo sfruttamento degli uomini piuttosto che la loro crescita conoscitiva”. È una riflessione che può sembrare a prima vista molto cinica, ma che si lega a ciò che l’archeologia ci fa conoscere sulle origini e sulla funzione della scrittura: uno strumento concepito nel momento in cui le civiltà urbane si affacciano sullo scenario del Vicino Oriente antico. Parliamo delle culture di Uruk del 3500-3000 a.C. Godard ci indica come la funzione primaria dello strumento scrittorio sia quella di controllare, di esercitare un ordinamento e una razionalità al movimento dei mezzi e delle risorse, o alla distribuzione dei mezzi di produzione. La scrittura nasce come supporto ineluttabile nel divenire di una gerarchia piramidale di tipo socio economico. Si sviluppa quando nasce la città, e diventa lo strumento di controllo delle elìte, in mano a chi detiene il potere, gli operai specializzati legati a questo nuovo strumento. La scrittura conoscerà un’ampia diffusione laddove, nel proseguio dei secoli, si crea l’esigenza dell’organizzazione di tipo templare e palatino, quei due strumenti fondamentali di formazione urbana che sono sempre presenti in quei luoghi dove si trovano le grandi organizzazioni.

Un’altra citazione riguarda Cadmo, fenicio, che mentre dorme sulla riva di una delle tante spiagge che ha incrociato nella sua irresistibile ricerca di Europa, la sorella rapita da Zeus. Si tratta di un viaggio inarrestabile che riporterà in senso storico l’incontro progressivo fra Oriente e Occidente. Mentre Cadmo di Tiro dorme sulla spiaggia, gli dei fanno piovere sulla sua testa una pioggia che non è fatta ne di acqua ne di neve, ma di strani piccoli oggetti che sono lettere. Dal cileo, gli dei danno a Cadmo, affinché le restituisca agli uomini, le tavole dell’alfabeto. Nel Mediterraneo, fra la fine del IX e l’inizio dell’VIII a.C. sono i seguaci di Cadmo, quei Phoenices che insieme al gruppo più intraprendente di greci che esistono in quel periodo, quelli dell’isola di Eubea, a seminare, far germogliare e trasportare le lettere cadmee in tutto lo scenario del mediterraneo occidentale. È una semina straordinaria quella cadmea, e molti distretti dell’Occidente hanno buoni raccolti di lettere, di alfabeti, di parole scritte. Una di queste semine, inizia a far scoprire anche nella nostra isola la scrittura. È ancora prematuro parlare di diffusione della scrittura nella Sardegna, ed è da escludere che se ne possa parlare in termini di sistema, ma ci sono degli indizi da cogliere sulle ceramiche e sui bronzi, con alcuni tentativi di composizione di lettere che, come succede altrove nel Mediterraneo, sono lettere che si richiamano da un lato alle forme dei phoenician grammar e dall’altro alle forme euboiche dei primi alfabeti. Al momento vi sono pochi studi seri sull’argomento, e questi sono oppressi, schiacciati, quasi delegittimati da una mole immensa di pagine, di farneticazioni, di cialtronerie che ci parlano di proto-ugaritico, di proto-sinaitico, di proto-altro, e che gonfiano volumi di spazzatura che sono entusiasticamente editati da editori interessati solo a produrre reddito facile. Fortunatamente la ricerca archeologica va avanti e l’accordo fra le culture nuragiche e i grammata di Cadmeo iniziano pian piano ad attecchire. Nella mostra oggi inaugurata al Museo Archeologico di Cagliari, che proseguirà fino a Settembre, sono visibili molti pezzi che presentano segni di scrittura, e i creatori di questa mostra hanno giustamente pensato di presentare questi documenti attraverso una serie di fonti, opzioni, incontri, innesti, messaggi…quindi un corpus che offre la magia degli oggetti parlanti.

Il valore taumaturgico della lettera scritta è stato fondamentale a lungo in un mondo come quello antico che non riesce quasi mai a distinguere tra il livello religioso, quello economico e quello politico, ma considera questi vari aspetti come avvolti in un’unica realtà, un mondo che gli antichi greci definirebbero con la formula: “la natura è piena di dei”. In questo senso la parola scritta diventa un mezzo di potere, di comunicazione, ma anche un mezzo per avvicinarsi al mondo degli dei e, in qualche modo, condizionarli. Nel mondo antico, la parola scritta non è mai stata uno strumento universalmente diffuso. Al contrario, è stato in mano a gruppi privilegiati all’interno della società, eppure pian piano la parola scritta ha consentito, nonostante le premesse ciniche di Godard, di far crescere e sviluppare le conoscenze dell’uomo. Non possiamo dimenticare che proprio in quei lontani tempi di Uruk la parola scritta nasce come strumento di controllo e di soggezione dell’uomo ma, nello stesso tempo, nascono i primi poemi, i primi voli fantastici dell’uomo che possono già definirsi poetici. Basta leggere le tavolette sumere sul mito di Gilgamesh per rendersi conto di questo splendido episodio dell’avventura umana. La scrittura esposta al Museo Archeologico di Cagliari non piove dal cielo come le lettere cadmee, ma compie il percorso inverso, ossia sale dal basso, dai depositi del museo, a comporre un quadro affascinante per il quale non possiamo far altro che ringraziare tutti gli operatori e gli addetti della soprintendenza che con il consueto entusiasmo hanno lavorato per la cultura della collettività.
Progetto espositivo di Marco Minoja, con la collaborazione scientifica di Consuelo Cossu, Michela Migaleddu e Donatella Salvi

Foto di Sara Montalbano.

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