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domenica 15 gennaio 2017

Archeologia. Michael Ventris e la decifrazione della Lineare B, la scrittura dei Micenei. Riflessioni di Matteo Riccò

Archeologia. Michael Ventris e la decifrazione della Lineare B, la scrittura dei Micenei.
di Matteo Riccò

E’ il 1936. Una delegazione della Stowe School, prestigiosa ed elitaria scuola media privata del Buckinghamshire, è stata invitata alle celebrazioni per il cinquantennale della British School of Archeology di Atene. Per l’occasione, alla Burlington House di Londra è stata predisposta una mostra straordinaria con reperti provenienti dagli scavi condotti in terra greca dai più celebrati archeologi britannici.
La scolaresca, allegra ma disciplinata come può essere solo un gruppo di studenti inglesi degli anni ‘30, arriva alla parte dell’esposizione riservata all’isola di Creta. Fra bacheche ed espositori fanno bella mostra di sé oggetti di raffinatissima fattura, che però la maggior parte dei ragazzini trova assai poco interessanti, preferendo sculture e vasi di epoca classica.
Fra tutti, uno solo rimane indietro, gli occhi fissi sui reperti, ed osserva rapito quelle che sembrano delle incisioni, caratterizzate da simboli che ricordano vagamente dei caratteri geroglifici. Un uomo anziano, molto distinto, si avvicina a lui e, con la bonarietà di un vecchio nonno la sera di Natale, gli chiede se gli
piacciano.
“No signore… non mi piacciono: mi interessano. Mi ricordano i geroglifici degli Egiziani. Lei sa cosa vogliono dire?”
“A dire il vero, non lo so…”
Chiunque abbia visitato un museo con dei bambini sa che episodi di questo genere siano tutt’altro che rari, ed il più delle volte si concludono così. Stavolta, però, non sarebbe successo. 
Perché l’uomo anziano era Sir Arthur Evans, e quei reperti li aveva scavati (o per meglio dire: fatti scavare) lui stesso. Lui, archeologo tanto dilettante quanto brillante linguista, aveva scoperto prove dell’esistenza sull’isola di Creta di una civiltà precedentemente sconosciuta e di una raffinatezza precedentemente inattesa sul suolo europea, e per di più dotata di tre sistemi di scrittura, una raffinata e complessa geroglifica propriamente detta, e due scritture apparentemente alfabetiche, organizzate in serie di caratteri lineari e ricavate da rapide incisioni di uno stilo sull’argilla fresca. Con razionalità e poca fantasia, Evans aveva battezzato queste ultime “Lineare A” e “Lineare B”.
Perché il ragazzino si chiamava Michael George Francis Ventris, e non era un comune studente di scuola media.
Suo padre e suo nonno sono due militari, e più precisamente due eroi di guerra che hanno passato buona parte della propria vita fra Cina, India e Sud-Africa. Sua madre, Anna Dorothea Janasz, è una polacca di origine ebreo-lituana. In casa Ventris l’inglese è quindi solo una delle sei-sette lingue veicolari usualmente utilizzate e lo stesso Michael a cinque anni è già in grado di leggere e scrivere in tedesco e lituano. A queste lingue, fra 1938 e 1940, e cioè fra la morte del padre per tubercolosi, la conquista tedesca della Polonia (e la conseguente perdita delle entrate legate ai beni continentali degli Janasz) ed il crollo psichiatrico della madre, successivamente suicidatasi, avrebbe aggiunto il russo, parlato in casa dello scultore Naum Neemia Pevsner, che lo avrebbe di fatto adottato. Ed in tedesco, all’età di 5 anni, Michael Ventris era in grado leggere “Die Hieroglyphen” di Adolph Erman, aggiungendo all’elenco delle lingue da lui conosciute anche quella dei Faraoni.
Se l’incontro fra l’anziano Evans (già ottantenne, morirà nel 1941) ed il giovane Ventris è verità storica, sul suo contenuto si è molto romanzato. Una delle versioni più diffuse, ed in un certo senso poco importa sia vera o no, è che il quattordicenne Ventris rispondesse all’ammissione di impotenza di Evans più o meno così:
“Beh, se nessuno lo ha ancora fatto, sarò il primo a farlo.”
Permettetemi un piccolo passo indietro, e più precisamente di tornare al 27. Maggio 1873, quando Heinrich Schliemann porta alla luce quello che lui chiamerà “il tesoro di Priamo”, di fatto rimettendo sulla carta geografica dell’Europa la città di Troia, e riconquistando alla Storia ciò che (quasi) tutto il mondo aveva etichettato alla stregua di miti e leggende, e cioè il passato storico della Grecia. Meno noti della scoperta di Troia sono gli scavi eseguiti dallo Schliemann in Grecia negli anni seguenti, nei siti associati alle città di Micene e Tirinto, che avevano portato alla luce colossali rovine ed incredibili corredi funebri appartenenti ad una civiltà che aveva preceduto l’antichità classica di almeno mezzo millennio. Pochi anni dopo, Sir Arthur Evans avrebbe fatto scoperte archeologiche ancor più incredibili sull’isola di Creta, giungendo così alla conclusione che la Grecia dell’età del Bronzo avesse ospitato non una ma bensì due civiltà ben distinte, che per ragioni di semplicità si iniziò a distinguere in “micenei”, continentali, dai “minoici” o isolani. Al contesto si sarebbero poi aggiunte altrettanto sorprendenti (ed ancor meno note) scoperte fra le isole del Mar Egeo e del Mediterraneo Orientale, in particolare nelle Cicladi, rivelando come quest’area fosse stata caratterizzata da uno sviluppo culturale tanto raffinato quanto precedentemente ignoto. Negli anni seguenti, l’archeologo americano Carl Blegen avrebbe poi eseguito scavi sia a Troia che nel Peloponneso meridionale, portando alla luce i resti della reggia della “sabbiosa Pilo” di Re Nestore. Certo meno spettacolari di quelli rinvenuti da Schliemann, però arricchiti da un tesoro incommensurabile: un archivio di tavolette di argilla, composte in una scrittura già nota agli archeologi, la Lineare B di Evans.
In quegli anni, la ricerca archeologica e linguistica era dominata dall’ottimismo, innescato dalla decifrazione della scrittura geroglifica da parte di Champollion, sostenuto dall’interpretazione dei caratteri cuneiformi e dalla possibilità di leggere le sterminate biblioteche rinvenute negli scavi mesopotamici, ed infine confermato dalla casuale ma brillante decifrazione della lingua ittita. Come nel caso della scrittura Maya, di cui abbiamo già parlato, gli archeologi del tempo erano certi che la decifrazione delle tre scritture elleniche sarebbe stata conseguita in breve tempo, e che questa avrebbe confermato l’esistenza di un’antica civiltà pre-indoeuropea, spazzata via dall’arrivo dei Greci Classici, identificati nella calata dei c.d. “Eraclidi”, un evento conservato da molte narrazioni mitologiche.
Purtroppo, la decifrazione dei tre sistemi di scrittura pre-classici dell’area greca sembrava tetragona a qualsiasi tentativo, anche perché nell’affrontare lo studio dei tre sistemi di scrittura, quantomeno fino agli anni ‘50, i ricercatori potevano contare su pochissime informazioni:
la scrittura geroglifica (http://www.minoanatlantis.com/…/Minoan_Cretan_Hieroglyphic_…) era la più antica delle tre, predatando di almeno 500 anni sia la lineare A che la lineare B, e risalendo cioè ad un periodo compreso fra il 2200 ed il 1700 a.C., ed era stata utilizzata quasi esclusivamente a Creta, visto che, già rara di suo, reperti con questo genere di scrittura sul continente erano pressoché eccezionali;
la lineare A (http://farm5.static.flickr.com/40…/4205220727_511e194054.jpg) compariva fra il 1800 ed il 1700 a.c., per essere abbandonata intorno al 1400 a.C., comprendeva alcuni dei simboli contenuti nella scrittura geroglifica, semplificandoli e standardizzandoli, ed era stata utilizzata prevalentemente a Creta, ma era comunque possibile ritrovare un certo numero di iscrizioni anche a livello continentale, nonché in Israele e Turchia e nei Balcani; 
la lineare B (http://www.omniglot.com/images/writing/linearb.gif) compariva, timidamente, intorno al 1600 a.C., per scomparire quasi completamente verso il 1200 a.C. e, come la lineare A, era stata usata sia nel Peloponneso che a Creta.
Anche la quantità delle attestazioni era piuttosto eterogenea, e per lo più insoddisfacente. Partendo dalla scrittura geroglifica, ad oggi ne sono note circa 250-270 iscrizioni, equamente ricavate ad sigilli ed incisioni, dalle quali sono stati identificati all’incirca 1700 segni per 300 caratteri diversi. Evans, le cui doti di glottologo compensavano ampiamente quelle di archeologo, aveva intuito dovesse essere una scrittura completamente o parzialmente ideogrammatica - il che rappresenta un ovvio, enorme problema in termini di decifrazione. Poiché l’ideogramma non ha un valore fonetico, almeno nella maggior parte dei casi, risalire al significante dei testi era ed è estremamente difficile a meno di disporre di qualche documento comparativo che consenta di confrontare i dati e di retroingegnerizzarne il contenuto. Per esempio: nell’ultimo decennio è stato possibile decifrare la scrittura geroglifica ittita confrontandone le iscrizioni murarie con alcuni documenti che presentavano, per ragioni casuali, la trascrizione fonetica di marcature geroglifiche. In quest’ultimo caso va però sottolineato che la lingua utilizzata fosse la stessa, scritta in due modi diversi per un uso diverso (quello sacrale delle incisioni rupestri, quello veicolare delle altre).
Lineare A e Lineare B sembravano più aggredibili. Prima di tutto, il numero di incisioni disponibili è molto più consistente: per la Lineare A si parla di circa 7000 segni complessivi, distribuiti su poco più di 1400 iscrizioni, mentre il corpus della Lineare B è ancora più rilevante, comprendendo diverse migliaia di tavolette, anche molto lunghe, ed altre migliaia di incisioni su vasi ed oggetti.
Secondariamente, il numero di caratteri inventariati era apparentemente più contenuto: alcune centinaia nel caso della Lineare A, non più di 200 per la Lineare B.
E’ da qui che Ventris iniziò il suo lavoro alla fine della Seconda Guerra Mondiale, durante la guerra, aveva servito come radiotelegrafista a bordo dei bombardieri della RAF. Nonostante i problemi economici della famiglia lo avessero obbligato a dedicarsi a studi associati a concrete possibilità lavorative, e nel dettaglio l’architettura, Ventris non aveva abbandonato le sue ricerche sulla Lineare B, e saranno proprio queste vicende a farlo incontrare con il secondo protagonista di questo racconto, John Chadwick.
John Chadwick è un personaggio da romanzo. Pressoché coetaneo di Ventris, durante il conflitto aveva servito presso la marina britannica ad Alessandria e lì, nel giro di poche settimane e pressoché da solo, era riuscito a decifrare il codice cifrato della nostra Regia Marina: promosso sul campo grazie alla sua scoperta (che fu poi decisiva nel garantire la supremazia navale agli inglesi e, in ultima analisi, la vittoria finale alleata), così rapidamente da provocare un caso diplomatico all’interno della marina (praticamente fu necessario chiedere una dispensa di sua maestà britannica per risparmiargli il corso ufficiali), avrebbe poi lavorato con Alan Turing nella decifrazione del codice Enigma (il che si sarebbe scoperto solo dopo la sua morte) e sarebbe stato utilizzato sul fronte del Pacifico aiutando gli americani a mantenere la piena capacità di codifica del codice cifrato nipponico (notare che per far questo aveva imparato il giapponese in meno di 9 mesi). Rientrato alla vita civile alla fine della guerra, Chadwick aveva trasferito il suo talento innato per la decodifica dei codici alle lingue antiche, dedicandosi già prima del 1950 alla decifrazione dei tre sistemi di scrittura cretesi.
Torniamo a Ventris. Poco prima della guerra, aveva ipotizzato che la Lineare B fosse la rappresentazione grafica di una lingua pre-indoeuropea, probabilmente affine all’etrusco. A motivare quest’ipotesi di lavoro erano stati due fattori. Prima di tutto, la radicale cesura esistente fra l’architettura e l’arte micenea e quella greca dell’età arcaica lasciava pensare ad una vera e propria sostituzione etnica, cioè che - detto altrimenti, i Greci storici non fossero quelli omerici. A tale proposito, vale la pena ricordare che, in effetti, Omero non usi mai il termine “ellenes”, preferendo ad esso “achei”, “danai” o “argivi” sulla base delle esigenze metriche. D’altro canto, alcuni segni della Lineare B, ed in particolare il 4° da sinistra della tabella sopra riportata, sembravano identici nelle due scritture: l’ipotesi di Ventris era che gli etruschi avessero trattenuto nella propria grafia segni grafici utilizzati più anticamente per rendere suoni estranei all’alfabeto greco, esattamente come i copti con il segno geroglifico per “re” nel contesto di un alfabeto di estesa derivazione greca. Alla fine, Ventris si renderà conto di aver sbagliato il punto di partenza - e cioè la similitudine fra etrusco e lingua usata nella lineare B - ma non l’ipotesi di lavoro.
A spazzar via l’idea iniziale di Ventris era stata l’osservazione di un altro genio dell’epoca, Alice Kober. Figlia di immigrati ungheresi e precocissima poliglotta, fluente in pressoché tutte le lingue indoeuropee note a quel tempo, poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale Alice Kober aveva sviluppato una malsana passione per le iscrizioni minoiche, categoria nella quale ricadevano all’epoca i tre sistemi di scrittura di cui oggi parliamo, ricevendo una borsa di studio Guggenheim per dedicarsi “full time” alla decifrazione della lineare B. Nel 1946, trovandosi in Grecia proprio per studiare direttamente le iscrizioni, Alice Kober aveva notato un problema precedentemente sfuggito a quasi tutti i suoi predecessori: i segni usati dalla lineare B non erano 200, ma molti meno: non più di un centinaio. Segni che erano stati registrati come distinti erano in realtà varianti locali o persino personali di uno stesso carattere: oltre all’evidente necessità di rivedere tutte le trascrizioni disponibili, in quanto gravate da questo errore di partenza, ne derivava anche un’ulteriore considerazione. E cioè che, molto probabilmente, la Lineare B non fosse altro che una scrittura sillabica. Dovendo ricopiare manualmente e criticamente i documenti disponibili, la Korber si accorse di un altro elemento, ancora più importante. Le parole composte in lineare B presentavano cioè tre sezioni distinte: una radice invariabile, alla quale erano talora anteposti dei prefissi, fra loro costanti, ed una parte terminale variabile. La lingua della Lineare B era, cioè, una lingua flessiva.
Cosa vuol dire “lingua flessiva”? Cercando di semplificare, dobbiamo ricordarci che la lingua ha una funzione primaria: trasmettere un messaggio nel modo più chiaro, più semplice, e meno equivoco possibile. Insomma, per dirla con De Saussure, nel modo più “economico” possibile. Per far questo, gli elementi logici della frase (chi compie l’azione, l’azione, e l’oggetto dell’azione) devono avere una facile identificazione: al di là dell’elemento ironico, è evidente che una lingua che permetta di comporre una frase il cui significato può essere reso sia come “il cane mangia la polpetta” che “la polpetta mangia il cane”, è più che inutile sostanzialmente dannosa. Per fare questo, tre sono le strategie possibili: 
E’ il rigoroso ordine della frase che, con l’aiuto di alcuni paletti rappresentati ad esempio da elementi fonetici di apertura o chiusura immediata della frase, permette di stabilire la funzione logica degli elementi: è la strategia, ad esempio, utilizzata dal moderno Cinese mandarino. Si tratta delle c.d. “lingue isolanti”.
Gli elementi logici della frase sono, di volta in volta, indicati da elementi che specificano la funzione in modo inequivoco: è il caso, ad esempio, del giapponese moderno, in cui il soggetto che compie l’azione è indicato dal suffisso -wa, e l’oggetto dal suffisso -o. Ma anche di altre lingue molto diverse come il turco, il magiaro, il finnico. Poiché l’uso di prefissi e suffissi determina la formazione di “agglutinati”, queste sono lingue “agglutinanti”.
Le parole cambiano a seconda dell’elemento logico che svolgono, e il cambiamento, o flessione, può essere o interno alla parola, ad esempio sostituendo in modo costante una vocale con un’altra (come nel caso delle lingue semitiche), o terminale, come nel caso delle lingue indoeuropee (che però fanno uso anche della flessione interna), tramite la declinazione del nome, dell’aggettivo e dei pronomi, e la coniugazione del verbo.
Capire che la Lineare B fosse una scrittura sillabica e che la sua lingua fosse flessiva aveva ricadute pratiche immediate, perché - oltre a consentirci di avvicinare questa lingua sconosciuta ad un contesto reale, poneva un caveat immediato a qualsiasi tentativo di interpretazione. La maggior parte delle lingue flessive, e pressoché tutte quelle storicamente parlate nel bacino del Mediterraneo, non sono infatti facilmente adattabili ad un sistema di scrittura sillabico - come appreso dagli studi sull’hittita, che era affetto dallo stesso problema. Questo rendeva possibile che la Lineare B fosse una lingua indoeuropea.
Partendo da queste osservazioni, nel 1950 Michael Ventris ebbe due intuizioni decisive.
La prima di natura operativa: di fatto, inventò l’open source e la mailing list. Armato di carta e penna, Ventris scrisse a tutti coloro che avevano scritto o stavano scrivendo sulla decifrazione delle lingue minoiche, invitandoli a condividere con gli altri il “codice sorgente” delle proprie scoperte e non solo le conclusioni pubblicate a stampa, in modo da costituire una specie di “macchina di decifrazione collettiva”, che per di più non risentisse dell’improvvisa defaillance di questo o di quel ricercatore, per le più svariate ragioni (dal cambio di interesse, alla pensione, alla morte) mettendo costantemente a conoscenza degli altri membri della mailing list ogni nuova scoperta. Poiché Ventris, di fatto, non era altro che un dilettante, buona parte dei suoi destinatari non si prese nemmeno la briga di rispondergli - ma molti altri, invece, lo fecero. Fra questi vi fu Chadwick.
Confrontandosi con Chadwick, Ventris arrivò alla seconda, grandissima, intuizione.
Ora: in Giapponese esistono due scritture sillabiche, i c.d. hiragana e katakana, che comunque è un derivato dalla prima. Nella sillabica giapponese, i segni sono raggruppati “in famiglie” (http://www.omniglot.com/images/writing/hiragana.gif), per cui la base rappresentata dalla consonante viene modificata dall’aggiunta della consonante in un modo sistematico, tale per cui il segno grafico per “te” assomiglia a quello per “to” più di quanto non assomigli a “re”, ma “re” a sua volta assomiglia a “ro”, e la distanza grafica fra “to” e “ro” è analoga a quella fra “te” e “re”. Ciò è chiaramente la conseguenza di una costruzione sistematica, ma risponde a delle esigenze pratiche, in particolare alla memorizzazione del lettore e dello scrittore (che proprio in quegli anni si iniziava ad interpretare, correttamente, come processi separati). Ventris pensò che anche gli antichi scribi della Lineare B avessero praticato le stesse tecniche e quindi, pur senza conoscere i suoni, iniziò a costruire una griglia di similitudine analoga a quella in uso per il giapponese.
A questo punto, a Ventris e Chadwick serviva un appiglio che consentisse di leggere i suoni. Appiglio tanto importante quanto sfuggente. Se non che a Ventris tornò improvvisamente in mente l’osservazione che aveva fatto nemmeno quattordicenne su quel famoso segno comune all’etrusco ed alle incisioni della lineare B.
Piccola premessa: quanto segue probabilmente risveglierà lontanissimi ricordi di scuola a chi ha avuto la fortuna (o la sfortuna, punti di vista) di studiare in un liceo classico, ed è un peccato questi temi, culturalmente ma anche intellettualmente interessanti siano spesso e volentieri ignorati. Ma tant’è.
Ora: il greco antico “classico” vanta una scrittura alfabetica che marca sia vocali e consonanti, da cui deriva la nostra scrittura moderna tramite l’interpretazione latina. Prima di arrivare alla sua forma finale, l’alfabeto greco attraversò una fase evolutiva estremamente turbolenta e travagliata, che portò gli elleni ad abbandonare alcuni dei segni, ritenuti inutili (è il caso del segno per la v, il digamma, in quanto in epoca classica il suono per la u in appoggio ad altre vocali era scarsamente differenziato da quello per la v), o ridondanti perché rappresentanti da altri segni (come la “coppa”, che rendeva lo stesso suono della k: poiché quando i romani acquisirono l’alfabeto greco, la “coppa” era ancora usata, la introdussero insieme alla k tramutata in c, ed è quindi da essa che derivano sia la nostra q che la secolare confusione fra c/q/k/ch/qu nelle lingue neolatine), doppi e/o instabili, come il sampi (che probabilmente rendeva quel suono “ts” di dubbia resa, e che poi in greco classico dropperà, convalidando la resa o con la doppia s o con la doppia t, come nel termine “mare”, thalassa/thalatta). Mentre digamma, coppa e sampi erano noti anche in epoca storica perché usati come marcatori numerici (rispettivamente per 6, 90 e 900), altri simboli non ebbero altrettanta fortuna. Ed in particolare ciò accadde per il greco utilizzato a Cipro, il cosiddetto “arcadocipriota”.
Il greco antico era caratterizzato dalla spiccata eterogeneità dei suoi dialetti, che ad un certo punto superò la base storica per fini retorici (la poesia lirica doveva essere composta in dialetto eolico, indipendentemente dalla lingua veicolare usata dall’autore perché quella era la lingua dei primi poeti lirici; la poesia epica in una particolare variante di ionico attico perché i poemi omerici erano composti in quel dialetto, e così via): fra questi, l’arcado-cipriota spiccava per alcune caratteristiche che ne suggerivano la natura di una lingua piuttosto arcaica, nonché per alcune anomale rese fonetiche, non ultima la conservazione del suono della “v”. Fino all’epoca di Ventris, queste anomalie erano spiegate dalla particolare storia di Cipro.
Cipro è un’isola splendida, la cui bellezza spinse gli antichi ad immaginare che la Dea Afrodite fosse nata sulle sue sponde (con buona pace di Foscolo). Ed oltre ad essere splendida, ha una dote che l’ha resa preda pregiata per tutti gli imperi del tempo antico: ricchissimi giacimenti di rame (il termine Copper deriva proprio da Cipro attraverso il latino). Vuoi per la sua posizione geografica, più vicina al Levante che all’Europa, vuoi per questa sua natura, tutti gli imperi del mondo antico hanno ripetutamente cercato di mettere la propria bandierina dalle parti di Limassol - situazione che, per altro, vediamo ripetersi ancora ai giorni nostri, con la scandalosa separazione fra Cipro turca e Cipro greca.
In altri termini, l’ipotesi prevalente fino ai giorni di Ventris era che le anomalie linguistiche di Cipro fossero interpretabili come conseguenza della vicinanza con l’oriente, e di prestiti o sostrati linguistici semitici. Una spiegazione tuttavia monca. Perché l’arcadocipriota non si parlava solo in Cipro, ma anche in Arcadia. Una regione montuosa della Grecia peloponnesiaca dove, secondo la tradizione, i nobili di Micene guidati da Oreste si erano rifugiati scappando dalle loro rocche al ritorno in Grecia degli Eraclidi. Troppo fantasioso perché ci fosse un fondo di verità? Forse. Ma Ventris e Chadwick decisero di abbracciare la scommessa ipotizzando quindi che quelle anomalie non fossero conseguenza di un rapporto con l’Oriente ma con la madrepatria greca. Che Cipro e l’Arcadia fossero state un immenso “campo profughi” in cui popoli in fuga dal Peloponneso si erano rifugiati, cercando di propagare nel tempo le proprie tradizioni ed istituzioni. Culturalmente, il discorso quadrava: non solo molte delle località delle coste cipriote hanno nomi simili a località greche, ma anche la loro posizione sulle coste riflette quella delle località greche originarie. E ancora: Cipro aveva mantenuto una struttura nobiliare simile a quella che si trovava nell’Iliade molto più a lungo di quanto non fosse successo in patria e, soprattutto, in Cipro avevano continuato ad usare il carro da guerra anche in epoca classica, carro che era stato già dimenticato in epoca omerica (tant’è che Omero del carro non sa mai cosa farsene), e le tattiche militari utilizzate dai ciprioti davano un senso alle armi ritrovate nelle sepolture micenee. E soprattutto, Cipro aveva una particolarità per la quale i suoi abitanti erano stati lungamente derisi dagli Ateniesi.
Usavano cioè un proprio sistema di scrittura, ovviamente definito “barbaro” dai greci continentali, su base sillabica. Eccone un esempio (https://en.wikipedia.org/wiki/Cypriot_syllabary…).
Ecco dunque che l’idea originale di Ventris rinasceva dalle sue ceneri: facciamo come Champollion con l’egiziano geroglifico, frughiamo i due sillabari alla ricerca di segni simili e vediamo se applicando la lettura fonetica dell’arcadocipriota, che conosciamo, salta fuori qualcosa di sensato.
Un problema che immagino possiate intuire, soprattutto se avete già letto l’articolo sulla decifrazione della scrittura Maya (http://pierluigimontalbano.blogspot.it/…/la-storia-di-come-…) è: come sapere se ciò che si legge ha un senso oppure no, visto che alla fine si ignora la lingua di base e ci mancano troppi segni per qualsiasi interpretazione approfondita?
Fu Chadwick ad escogitare l’uovo di Colombo di turno.
Le lingue cambiano nel tempo, ed i mutamenti possono essere tanto radicali da rendere difficile riconoscere le parentele. Per decenni si è ad esempio dubitato che il gallese fosse una lingua indoeuropea, idem per georgiano ed armeno, per un mix di vocabolario arricchito da substrati pre- e non-indoeuropei e innovazioni grammaticali. Il Russo moderno è una lingua flessiva, ha le declinazioni come latino e greco, ma le sue terminazioni sono state completamente rimaneggiate durante il periodo che va dall’arrivo dei mongoli alla costituzione della moscovia imperiale, tranciando quasi qualsiasi parentela con le uscite storiche indoeuropee. E così via.
I nomi no, quelli non cambiano o non cambiano così tanto. Costantinopoli è diventata Istanbul, ma Istanbul è a sua volta la crasi della dizione medievale greca “Eis ten Polin”, cioè “verso la Città”, ove Città per antonomasia era appunto Costantinopoli; Trapezunte è diventata Trabzon, Smirne è diventata Izmir, ma la parentela con la radice originaria è ancora molto evidente. In Europa, i nomi dei fiumi, delle montagne … quando non sono stati pesantemente cristianizzati (o islamizzati) nel corso del medioevo, conservano ancora la radice risalente al mondo pre-romano, e talora addirittura a quello pre-indoeuropeo. Ed è normale che sia così, perché alla fine chi arriva in un posto sconosciuto può imporre la sua lingua, ma se deve riferirsi ad un luogo o a delle cose (piante, fiori, frutti, animali) che di quel luogo sono tipiche deve giocoforza importare le parole usate da chi era sul posto prima di lui.
Ventris e Chadwick decisero cioè di frugare i testi disponibili cercando riferimenti a luoghi di cui potessero ipotizzare una ricostruzione plausibile sulla base del sillabario cipriota, e che fossero coerenti con l’origine dei testi: nomi di Creta sulle tavolette di Lineare B trovate a Creta, nomi Peloponnesiaci sulle tavolette trovate in Peloponneso. La scommessa fu vinta.
Nel giro di un paio d’anni l’opera era conclusa e, nel 1953, con la pubblicazione di "Evidence for Greek Dialect in the Mycenaean Archives" (The Journal of Hellenic Studies. 73: 84–103), Ventris e Chadwick scuotevano il mondo accademico per tre ragioni:
Ventris e Chadwick erano riusciti a tradurre una lingua sconosciuta utilizzando logica, intelligenza, buon senso, pur senza disporre di una “stele di Rosetta” e con una disponibilità di testi di riferimento nettamente inferiore ai loro precursori con le scritture geroglifica e cuneiforme;
si dimostrava in modo incontrovertibile che la lingua utilizzata nella Lineare B fosse greco;
si dimostrava in modo altrettanto incontrovertibile che gli Achei di Omero fossero parenti prossimi dei Greci storici.
A ciò si aggiungeva un elemento storico di altrettanto grande importanza. Decifrando le tavolette disponibili, i ricercatori rimasero inizialmente piuttosto delusi dalla totale mancanza di testi narrativi e letterari: praticamente tutto ciò che sulle tavolette di Pilo, Tebe e Knossos era conservato corrispondeva ad acconti notarili, equiparabili a fatture e dichiarazioni dei redditi. Non solo: questi documenti si riferivano ad un ristretto arco temporale. Ciò probabilmente non significa che gli Achei non possedessero propri testi letterari, ma che semplicemente fossero conservati su un supporto diverso (ad esempio: papiro, che in un clima come quello greco non si sono potuti conservare), ed al tempo stesso svela che la distruzione degli archivi (e quindi delle città) fosse stata tanto improvvisa da impedire ai custodi di mettere in salvo il materiale, o comunque da imporre altre e più cogenti priorità alle diverse amministrazioni cittadine.
Non è questo il posto né il momento per trattare delle specificità emergenti dalla decifrazioni della Lineare B. 
La cosa importante è che, nonostante le aspettative, ad essa non ha rapidamente seguito quella della lineare A.
Con la ragion di poi, vi sono diverse ragioni per queste difficoltà. La prima, e probabilmente la più importante, è che la nostra disponibilità di testi in Lineare A è solo una frazione di quanto accessibile in Lineare B. Inoltre, e lo stesso discorso vale per il geroglifico, la lunghezza dei testi è spesso ridotta ad una manciata di caratteri, il che rende pressoché impossibile tentare qualsiasi elucubrazione sulla struttura grammaticale della lingua di base. Alice Kober, ad esempio, aveva notato la natura flessiva della Lineare B potendo leggere e ricopiare decine di testi: ciò è impossibile parlando di Lineare A. Il cui corpus si riduce, lo ripetiamo, a poco più di 7,000 caratteri (se mi avete letto fino a questo punto, il conteggio caratteri di questo articolo è intorno ai 30,000).
Peggio ancora per la geroglifica, visto che il 90% dei documenti accessibili si riduce a sigilli e brevissime iscrizioni, al massimo 3-4 segni associati.
C’è però un’eccezione: il disco di Festos (http://www.crystalinks.com/phaistosdiscs.jpg ).
Il disco di Festos fu ritrovato dall’archeologo italiano Luigi Pernier nel 1908 nei suoi scavi nei pressi della città cretese di Faistos (o Festòs a seconda delle traslitterazioni), ed è stato considerato per decenni a metà strada fra il più misterioso reperto archeologico europeo ed una bufala. Si tratta di un disco di argilla del diametro di 17 cm, coperto di due incisioni a spirale. E qui cominciano le stranezze, prima di tutto perché non si tratta di incisioni, ma di immagini ricavate dalla pressione sull’argilla fresca di stampini (il che ne farebbe il primo esempio di stampa a caratteri mobili di tutti i tempi). Altra curiosità del disco di Festos è che i caratteri sono raggruppati in blocchi di 4-5, a separare delle unità logiche. Infine, nonostante i segni siano abbastanza numerosi - 241, la maggior parte di essi è ripetuta più volte tanto che i caratteri usati sono solo 45.
Le ipotesi sul suo contenuto sono state le più diverse, e vanno dal più antico gioco dell’oca (e non è uno scherzo né una facezia), ad un abbecedario, ovvero ad un archivio.
La decifrazione del Disco di Festòs (o quantomeno, un’ipotetica decifrazione) è stata portata a termine solo nell’ultimo quinquennio da parte di un gruppo di lavoro guidato dall’archeologo gallese Gareth Owens, che è (probabilmente) riuscito nell’impresa sfruttando le armi che abbiamo già incrociato più volte, e cioè buon senso, flessibilità mentale, e logica stringente.
Il punto di partenza del gruppo di Owens è stato ricercare sul disco caratteri che fossero già noti. Ipotizzando che la lineare B rappresenti una forma adattata al miceneo di lineare A (usando proprio un esempio di Owens: immaginatevi un bambino figlio di madre che parlava miceneo e di un padre che parlava la lingua della lineare A, e che questi volesse scrivere la lingua materna benché non esistesse un proprio sistema di scrittura: avrebbe probabilmente adattato la scrittura disponibile, e cioè la lineare A, per rendere i suoni della lingua materna), che la lineare A sia a sua volta una versione semplificata della geroglifica, che i gruppi siano separati per distinguere le parole (il che ha senso in una scrittura alfabetica o sillabica, o comunque largamente basata su un sistema sillabico, meno in una scrittura ideogrammatica), ci sono segni abbastanza simili per tentare una lettura ragionevole?
Sì, ci sono: li trovate nel disegno linkato (http://i.dailymail.co.uk/…/1414060633117_wps_6_image001_png…) e, stando legati alla trascrizione ipotetica, questa parola si leggerebbe “I-QE-KU-RJA”.
Ora: questa parole, cioè “iqekurja”, si ritrova anche in Lineare B, ed indica una divinità cui venivano regolarmente erogati dei sacrifici, corrispondente alla “Potnia Theron” o “Signora degli animali”, divinità che nel mondo miceneo incarna sia Athena sia Afrodite.
Se avete un minimo di familiarità con le lingue classiche, ed avete riletto almeno un paio di volte il termine “iqekurja”, in questo momento avete probabilmente fatto un salto sulla sedia. Perché esso contiene due parole facilmente riconoscibili: la radice di equus, cioè cavallo, e kyrie, cioè signore.
Proseguendo nella trascrizione su questo principio si ricava:
Lato A
IQePaJeRju ETuQe AuDiTi AuAuPi 
 IQeNwaTuSa WaDiTiQe Wa??No
IQeDeRjuNe KuRjaTe
IQeSiDaTe JeSiTuTi 
IQeRaNaKe ReTwe IWaDwaZijNaRju JoJe
IQeKuRja
IQeWaWaTeRaiSwi NaSa
IQeKuRja IWaDwaZuNaRju JoJe
IQeKuRja
IQeWaTaRaRjuWa DeRju??Da KuRjaQe
IQePaJe NaDaTe ZuUKe 
IQeWaWaTeRaiSwi PaJe ZuUKe
Lato B
IQeZoTuTi WaDiTiTe IRaiNaPu ZoDwaWa
SaENeQe ZeNaRjuTja PaJeReSa 
 SoTiPaJeRju ZoRai??Dwa TiETuTe
IRjaNiTu WaDwaKeJe AuEENeTe
ZeTaRju AuSaJe DeTeRaReSa IPeWaJe
AuNiTiNo AuNoPa AuDiTi ZoAuNiTiNo
WaPiNaDwa TiRjuTe TiDiTi TiNaRjuE
ZoAuNiTiNo PeQiReRjuTi IDeTeNaTi
AuPiNaDwa DiTi
La traslitterazione di Owens è stata criticata per varie ragioni, in particolare perché basata su troppi postulati al momento non dimostrabili (http://people.ku.edu/~jyounger/misc/Owens_response.pdf), in particolare perché bypassa la lineare A, ma se corretta (e vi sono molti elementi per credere che almeno parzialmente lo sia) si tratta di materiale radioattivo.
Prima di tutto, la geroglifica non sarebbe una vera e propria geroglifica - il che sposta ancora più indietro la sua originaria creazione. Si tratta cioè di una scrittura in cui un certo numero di caratteri, inizialmente ideogrammi, sono utilizzati non già per il loro significato ma per il loro significante (l’aspetto sonoro). Questo (come abbiamo già visto parlando della scrittura Maya) di avere un numero di caratteri superiore ad una scrittura pienamente sillabica o alfabetica, ma molto più contenuto di una scrittura ideogrammatica (rendendo plausibile l’uso dei famosi stampini, che invece di essere centinaia poteva ridursi a poco più di 200). Per la cronaca, la stessa strategia sarebbe stata utilizzata secoli dopo dalla geroglifica hittita, che però nacque più o meno nello stesso periodo.
Secondariamente, il disco si configura come un vero e proprio inno, e le ripetizioni sono strumentali alla struttura innodica ed all’imposizione di un particolare ritmo, per di più sostenuto dall’organizzazione in quelli che già sembrano precursori degli elementi primordiali della ritmica greca. Il che, visto che gli inni religiosi tendono a restare immutati nel tempo, ne farebbe con ogni probabilità il più antico testo poetico-religioso in nostro possesso, forse persino coevo dell’Enuma Elish.
Come se ciò non bastasse, la lingua riportata non è miceneo, e questo in un certo senso è positivo in quanto coerente con l’ipotesi che l’uso del minoico (e quindi della Lineare B) sia stato importato in Creta dalla conquista Micenea poco prima della Guerra di Troia (vedasi a proposito il ciclo di leggende incentrato sulla successione di Minosse e l’ascesa di Idomeneo). Tuttavia, contrariamente ad ogni ipotesi precedentemente in essere, essa non è una lingua pre-indoeuropea, ma è a tutti gli effetti una lingua indoeuropea - arcaica quanto si vuole, ma nella cui composizione si possono riconoscere radici verbali e nominali (spicca ad esempio “auditi” proprio là dove in un inno uno si aspetta ci debba stare il verbo “ascoltaci!”) nonché l’uso costante delle figure di suono, ed in particolare del nesso allitterante, che sarà molto amato dalle lingue europee continentali, ma non dal greco.
Ma cosa significa questo, in termini pratici?
Molto, tantissimo - sempre se la trascrizione è corretta.
Poiché il geroglifico minoico è utilizzato dal terzo millennio a.C., questo significa che gli Indoeuropei sarebbero arrivati in Europa almeno cinquecento anni prima di quanto classicamente previsto, se non mille anni prima.
Con l’accortezza che la brevità del testo impone di per sé prudenza estrema (sarebbe come studiare l’Italiano basandosi sull’Ave Maria), la tavoletta sembrerebbe poi porsi a metà strada fra le lingue indoeuropee classiche e l’ittita, la cui classificazione nell’albero evolutivo è sempre stata molto problematica. A distanza di 30-40 anni, l’ipotesi che la migrazione indoeuropea si sarebbe svolta almeno in due ondate, una intorno al 3-4,000 a.C., ed una seconda 2000 anni dopo, potrebbe quindi trovare un’inattesa dimostrazione.
E ancora, questa traslitterazione significa che popolazioni indoeuropee fossero in grado di solcare il mare molti secoli prima di quanto la ricerca scientifica ritenesse verosimile fino a pochi anni fa. Questo, a sua volta, ha ricadute a catena soprattutto per l’archeologia del mediterraneo occidentale. Di cui, forse parleremo meglio in un’altra occasione.
Epilogo.
Alice Kober fu la prima ad intuire la strada giusta, ma non poté percorrerla fino in fondo. Sommersa di incarichi accademici per via della riconosciuta competenza, dedicò i suoi ultimi anni all’insegnamento a studenti ciechi ed ipovedenti, per i quali scrisse i primi testi di linguistica in braille. Incallita fumatrice da 60-80 sigarette al giorno, morì a 43 anni di carcinoma polmonare: al suo funerale c’era solo la sua amata ed anziana madre.
L’impatto di Michael Ventris e John Chadwick nella decifrazione della Lineare B venne riconosciuto in termini che oggi, forse, fatichiamo a comprendere. Non solo entrambi, e Ventris in particolare, ebbero l’onore di presentarla in diretta nazionale alla BBC e celebrati come vere e proprie rock-star dei giorni nostri. Ventris venne addirittura premiato con l’Order of British Empire a nemmeno 32 anni. 
Troppa gloria, soprattutto per Ventris che, quasi sentisse in un colpo solo il peso psicologico di tanto studio, fu costretto ad interrompere il lavoro di architetto. Poche settimane dopo, il 6. Settembre del 1956, rientrando alla sua casa di Hampstead in piena notte, fu coinvolto in un incidente stradale che gli fu fatale. Le indagini condotte sull’evento non hanno mai escluso la possibilità di un suicidio.
John Chadwick raccolse il testimone di Ventris come riferimento per tutti gli studiosi delle antiche scritture elleniche: docente di filologia antica a Cambridge, continuò a dirigere gli studi sulle antiche scritture elleniche fino alla pensione, nel 1984. Una pensione davvero molto breve, visto che già nel 1985 gli studenti lo avrebbero obbligato a rientrare in servizio a furor di popolo come docente di linguistica antica, e tale sarebbe rimasto fino a pochi giorni prima della sua morte, nel 1998.


1 commento:

  1. Ottimo articolo, che conferma al 90 per cento quanto ho scritto nel mio "L'astuto Omero". L'unico punto in cui dissento riguarda Schlieman e la "grecità" dei poemi omerici. www.astutoomero.blogspot.it

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