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martedì 11 luglio 2017

Archeologia. Rabdomanti e oracoli etruschi, figure di sacerdoti capaci di consultare il sottosuolo e predire le sorti e il futuro. Conoscevano erbe e piante, e appartenevano a una casta sacra. Riflessioni di Luigi Catena

Archeologia. Rabdomanti e oracoli etruschi, figure di sacerdoti capaci di consultare il sottosuolo e predire le sorti e il futuro. Conoscevano erbe e piante, e appartenevano a una casta sacra.   
Riflessioni di Luigi Catena

Poco si parla e poco si diffondono notizie che trattano questioni inerenti all’alone sacro che potevano trasmettere certe erbe o piante nella cultura  del popolo etrusco. Anzi molte volte si parla di ritrovamenti funebri, di arredi tombali, ma si trascurano altri aspetti della loro vita religiosa. Invece tracce di riti legati a erbe e piante sono rimaste tra le popolazioni che si sono succedute, anche in molte cerimonie cristiane e in particolari momenti come ricorrenze di festività dedicate a santi o feste mariane; tutti riti in cui si segnalano interessanti particolari. Vorrei in primo luogo soffermarmi su una pianta sacra nel mondo antico: il nocciolo (corylus avelana Linneo). Vorrei portare a conoscenza questa pianta, facendo riferimento ad una scoperta, quella del villaggio palafitticolo del Gran Carro ubicato nel Lago di Bolsena. 
Questo villaggio fu rinvenuto per la prima volta dall’archeologo subacqueo Alessandro Fioravanti negli anni settanta,  un villaggio risalente ad un periodo compreso tra la fine dell’età del Bronzo, l’età del Ferro X secolo a.C., prima della nascita della civiltà etrusca. Questo villaggio fu sommerso dall’innalzamento delle acque del lago (motivo tellurico). Nel setacciamento del limo e dei
fanghi depositati venne alla luce un quantità rilevante di noccioli  e di frutta, alimentazione delle popolazioni di quel periodo. Esattamente: corniolo (Cornus mas), prugna selvatica ( Prumus spinosa), prugna damascena (Prunus insititia), nocciolo (Corylus avelana) e ghiande (Quercus sp.) ma anche tralci e semi di vite (Vitis vinifera) e molti altri semi di cereali e legumi. 
Questa interessante scoperta, forse fu dovuta alla fortuna dell’innalzamento del livello delle acque che ha permesso di lasciare intatta la situazione al momento dell’abbandono del villaggio. Cosa si evince da questa scoperta? Il tipo di alimentazione che avevano le popolazioni villanoviane vissute sulle rive del lago di Bolsena. Quindi il nocciolo era uno dei frutti commestibili e la sua presenza è attestata già qualche secolo prima della civiltà etrusca. Ora purtroppo è diventato oggetto di una criminale coltivazione estensiva.

Il Rabdomante, un sacerdote etrusco
Interessante è capire questa figura, con spiccate qualità, portando a conoscenza alcune informazioni storiche. Dal libro “La Sardegna dei misteri” di Franco Fresi leggiamo…”Una delle motivazioni importanti per costruire era quasi certamente la vicinanza dell’acqua: di qui l’impiego del rabdomante. In un frammento di un vaso preistorico in ceramica rinvenuto a Santa Anastasia di Sardara, vicino a Cagliari, racconta il neo-studioso, è raffigurata una deità femminile che stringe tra le braccia una specie di forcella che richiama la verga bifida usata dai rabdomanti. Una immagine della Dea Madre, la dea dell’acqua venerata, secondo la tradizione, negli altari prenuragici e nuragici. Probabilmente la forza che indicava la presenza dell’acqua poteva rappresentare al rabdomante un messaggio della divinità, il segnale che in quel luogo i suoi devoti potevamo costruirsi una dimora, erigerle un tempio, magari anche fermarsi a guarire dai propri mali e a morire….”. Questa interessante interpretazione archeologica di Franco Fresi ci fa capire come già nel periodo dell’età del bronzo esistesse una attività cultuale specifica all’acqua. Testimonianza che ci insegna non solo il fine sacro legato all’elemento acqua, ma anche uno dei modi di saper cercarla. Questa figura, il rabdomante con doti particolari, come  l’oracolo, hanno in comune l’acqua, elemento ispiratore del sacro nel senso più ampio e profondo, sia essa calda o fredda, anche sotto forma di vapore. 
Il rabdomante, con la sua particolare sensibilità interiore, riesce a captare sorgenti, cavità sotterranee; invece l’oracolo usufruisce di tali elementi per esercitare le sue pratiche religiose. Molti testi ci dicono che la figura del rabdomante era presente già in Mesopotamia, dove questa pratica era già esercitata con i Caldei popolo la cui casta sacerdotale aveva spiccate conoscenze matematiche, astronomiche e astrologiche e i rabdomanti veneravano una dea che era la loro protettrice. Invece i Fenici usavano il pendolo nelle loro navigazioni. Curioso è che anche in Grecia, nell’800 a.C. a Delfhi e a Dydyma nel tempio di Apollo, l’oracolo rispondeva alle domande usando anche il pendolo. Gli Etruschi erano considerati molto esperti in quest’arte,  e anche tra gli antichi Romani veniva praticata la rabdomanzia (uso della bacchetta) e la radiestesia (l’uso del pendolo), come testimoniano gli scritti di Tertulliano e più tardi Ammiano Marcellino. 

Pratica come si vede esercitata in tutto il mondo antico e praticata da molti secoli. Proprio il popolo etrusco fu uno dei maggiori a farne uso, lo dimostrano le spiccate attività legate all’ingegneria idraulica (ricerca di sorgenti, la costruzione di cunicoli di drenaggio delle acque), la tantissima attività estrattiva (escavazione di tombe e ambienti sotterranei tutti asciutti) e l’esercizio della metallurgia con la ricerca dei filoni di metalli. Gli Etruschi hanno sempre suscitato una grande “curiosità sacra” che si riversava nello spazio in cui vivevano;  tutto il mondo per loro era sacro, soprattutto l’ambiente sotterraneo, rispetto al quale vi era una specifica disciplina sacra.  Fra le diverse discipline sacre di questo popolo c’era anche quella che si incarnava in una casta predisposta, con queste doti, un “genius loci”. Figura che lavorava dietro le quinte ma i risultati del cui lavoro erano sono sotto gli occhi di tutti. Erano figure con doti particolari: quelle di segnalare corsi d’acqua nel sottosuolo, sorgenti e la loro presumile profondità e, con esse, anche ambienti cavi o ipogei naturali. Pur con la scomparsa di questo popolo, questa particolare dote, in certe persone, non è morta, anzi chi è che non si ricorda nel proprio comune personaggi simili? Chiunque ha conosciuto Rabdomanti anche analfabeti, ma che avevano questa virtù, cercare l’acqua sottoterra. Oggi questa presenza è molto rara, ma nel mondo etrusco ogni comunità ne aveva diversi, con spiccate qualità e sensibilità. Lo strumento era un semplice ramo molto flessibile, a forma di forcella tenuta tra le due mani. Il rabdomante camminava su un terreno e quando questa forcella girava, proprio in quel determinato punto indicava il presunto sito adatto alla captazione dell’acqua. 
Andiamo con ordine. Una cosa è certa: questa pratica è molto antica ed era una delle diverse sfaccettature dell’esercizio sacerdotale di una casta che conosceva la volta celeste, il movimento degli astri, del sole, della luna, osservava e capiva le manifestazioni temporalesche, osservava e capiva il percorso dei fulmini. Il sacerdote etrusco era un grande osservatore del creato e affinare le sue particolari doti sacre era anche un modo per capire e recepire il mondo del sottosuolo. La pratica del rabdomante etrusco era molto importante in quanto non si trattava solo di scoprire corsi o sorgenti d’acqua sotterranee o cavità, ma anche (come nel caso di altre particolari figure)  captare anche la presenza di minerali. Interessante è una riproduzione riferita a un disegno del XVI secolo dove si evidenziano dei rabdomanti con una forcella di nocciolo in cerca di minerali ( Georges Agricola, De Re metallica, Basilea 1571). 
Gli etruschi non erano da meno rispetto al riferimento del disegno del XVI secolo, in quanto alla pratica della rabdomanzia, pratica molto antica, tanto che, pendolini e bacchette, sono state rinvenute in Egitto nella Valle dei Re. Rabdomanzia che significa: dal greco ‘rabdos’=bastone, e ‘manteia’=divinazione, quindi questa figura ha a che fare con il divino, il sacro, e per il popolo etrusco, vale a dire per la sua  casta sacerdotale, non se ne poteva fare a meno. Tutti gli storici latini dei primi secoli dopo la decadenza del popolo etrusco, hanno sottolineato come questo popolo oltre ad essere molto religioso fosse anche molto superstizioso, anzi di questa superstizione avevano fatto uno dei motivi della loro esistenza. Ora sappiamo che diverse piante ed erbe per questo popolo erano sacre o adatte a esercitare pratiche rituali e cerimoniali. Un ssempio ci viene dato da alcune piante come il nocciolo (corylus avellana L.). Per gli etruschi era una pianta con spiccate qualità, era simbolo di saggezza, utile per chi aveva problemi di guarigione. 
Con il nocciolo oltre a ricavare la forcella per il rabdomante era una pianta con le cui foglie si nutrivano gli animali perché si riteneva servissero per aumentare la loro fertilità. La stessa cosa accadeva in ambienti adatti al pascolo, dove le siepi  di nocciolo si usavano come recinto a protezione degli animali e contro gli spiriti maligni. Questa particolare usanza è rimasta integra fino ai nostri giorni. Una curiosità: con l’avvento del cristianesimo il nocciolo fu repentinamente sostituito dall’ulivo come simbolo di pace e portato come simbolo dei martiri cristiani. Ma nel mondo contadino è rimasta questa antica usanza,  e per questo è utile ricordare questa circostanza, riportata in uno scritto del 1993 di Pacelli Bruno ricercatore di Onano avente come argomento l’uso del nocciolo. Ecco cosa scriveva: “…Con i rami di questa pianta si potevano ottenere delle verghe magiche e vi si ricavano le bacchette per i rabdomanti  atte per cercare l’acqua. Inoltre nella tradizione Onanese le fronde di questa pianta venivano benedette e portate in solenne processione ai quattro angoli del paese. Terminata la processione si intagliava il legno in modo di ricavarne delle piccole croci, che insieme con un ramoscello di olivo benedetto nella domenica delle Palme e una candelina venivano poste nei campi a protezione delle messi.” Lo scritto del Pacelli continua con un ulteriore affermazione: “….La cerimonia si svolgeva il tre di maggio nella festività di Santa Croce, la solennità di tale manifestazione è documentata oralmente dagli anziani del paese che riferiscono come tutti i contadini si sarebbero recati in ogni loro appezzamento di terra e vi avrebbero piantato una croce. Era per tradizione che durante la mietitura, all’atto di togliere la croce vi si potevano trovare dei piccoli fiori, si affermava che vi era passato San Martino e il raccolto sarebbe stato abbondante”.
In sintesi che cosa ci vuole comunicare lo scritto del Pacelli? Di seguito lui afferma: “..Risulta evidente come il culto cristiano abbia spostato il rito pagano e la bacchetta magica ottenuta dai suoi rami si è trasformata nella croce miracolosa in grado di proteggere le messi. La forza protettrice  del nocciolo e per emulazione della croce avrebbero tenuto lontano gli spiriti maligni e le streghe con  i loro malefici”. 
Un’altra informazione simile ci perviene a Leonessa (Rieti), esattamente nei giorni prima di Pasqua. Il mercoledì, giovedì e venerdì Santo i giovani muniti di bastoni di nocciolo (Corylus avelana) si inginocchiano e in maniera violenta battono detti bastoni sul pavimento della chiesa in ricordo delle battute inflitte a Gesù Cristo. Il gesto si ripete diverse volte finché detti bastoni non si rompono e i pezzi ricavati vengono consegnati al sacerdote. Una parte di essi saranno bruciati per ricavarne le ceneri da usare per l’anno successivo e un’altra parte viene usata per farne delle croci da mettere nei campi come amuleto e avere buoni raccolti. Interessante documentazione semplice nelle circostanze ma molto chiara nei suoi risvolti storico-antropologici nei quali si evince che, nel passaggio dal paganesimo al cristianesimo, pur cambiando i soggetti e i simboli, la sostanza è sempre la stessa. 
In poche parole il cristianesimo cercava di cancellare tutti i riti pagani con risvolti caratteriali  di superstizione, che spesse volte rimanevano relegati nei rituali agrari del mondo contadino. Ma se andiamo a fare una ricerca su gran parte delle ricorrenze religiose sono quasi tutte legate al passato ma, non solo questo, soprattutto emerge con forza come non sia mai stata cancellata la vocazione del mondo agricolo ai riti pagani, alle sue tradizioni, che millenni hanno cementato. Questo a dimostrazione che non ci fu mai una fine delle pratiche rituali con sfumature sacre e magiche del mondo antico pur essendo stato debellato dalla nuova religione il cristianesimo. 
Il mondo agrario conserva ancora oggi questi particolari connotati in cui emergono con forza caratteristiche sfumature di superstizione in diverse ricorrenze riferite a ricordare  santi, martiri o figure mariane. Quindi la figura del rabdomante chi è  che non la ricorda fino a qualche decennio fa in diverse piccole comunità? In paesi agricoli era sempre presente e pur avendo la tecnologia a portata di mano si cercava sempre una figura del genere utile a captare delle sorgenti o dei vuoti nel sottosuolo. Queste due particolari figure (rabdomante e oracolo) nel mondo antico erano importanti soprattutto segnatamente al mondo ctonio, al mondo sotterraneo, dimora di divinità, ma anche a quell’ambiente sacro dal quale, sulla terra, si manifestavano segni sacri come fuoriuscite di vapori caldi, esalazioni venefiche, sorgenti termali o fessure telluriche. 
Il mondo degli inferi per gli etruschi è stato sempre un mondo misterioso ma nello stesso tempo un mondo sacro. La ricerca di sorgenti o la loro individuazione è stata sempre una grande necessità di conoscenza che permetteva di poter, per esempio, scavare delle necropoli, sempre in luoghi “asciutti” pur vicino a dei corsi d’acqua o sorgenti. La scelta di un luogo per poter esercitare delle ritualità dipendeva anche dalla ubicazione delle sorgenti o dei corsi d’acqua non superficiali e la loro individuazione e captazione era opera solamente dei rabdomanti etruschi. Un popolo, una grande civiltà, che aveva una elevata conoscenza del mondo sotterraneo e soprattutto quello con caratteristiche geologiche vulcaniche, cosa che permetteva agli Etruschi di poter realizzare ipogei sicuri, sepolture in luoghi asciutti. 
Oracoli che oggi in linea di massima possiamo identificarli (con molta approssimazione vista la mancanza di serietà di molti di essi) in quei soggetti che scrivono quotidianamente l’oroscopo, prevedendo il futuro, ma anche noi stessi siamo degli oracoli quando con una preghiera o con un qualsiasi rito cristiano o di altro tipo di confessione  ci rivolgiamo a divinità, santi o altre figure affinché  certe nostre richieste siano esaudite. 
In noi c’è una leggera venatura che ci porta ad avere contatti con un mondo extraterreno, ma questo tipo di venatura negli oracoli  era molto più evidente e più marcata. Anche perché nel mondo antico comunicare con il mondo sotterraneo era un esercizio riservato a pochi. L’attività oracolare era esercitata presso templi o strutture simili in cui l’oracolo aveva un suo spazio ben delineato e con caratteristica inconfondibile:  c’era un punto in cui comunicava con le divinità del sottosuolo, ma era anche in contatto con il mondo dei morti. Punto dove sulla superficie della terra si aprivano fessure telluriche o tratti di roccia da cui fuoriuscivano dei vapori caldi, o grotte con particolari caratteristiche sorgenti di acque calde o minerali con particolati virtù anche salutari. 
Fratture della crosta terrestre, questi erano i luoghi ideali per gli oracoli per poter comunicare con mondo sotterraneo. Gli oracoli spesse volte facevano uso di prodotti come, per  esempio: vino con del miele, oppure inalazione di fumi di certe piante, o l’assunzione di particolari funghi con proprietà allucinogene. Avevano bisogno di andare in uno stato psichico oltre il normale. Qualche anno fa esattamente, nell’inverno 2006, su una rivista specializzata sulle questioni Etrusche edita in America, “Etruscan News”- Bollettino della sezione Americana dell’Istituto di Studi Etruschi ed Italici-volume 5 winter 2006 uscì un articolo del Prof. Kyle P. Johnson New York University,con questo titolo: “An Etruscan Herbal?”. 

L’articolo del Professore ha censito ben 11 “Erbe medicinali Etrusche” appartenenti alle pratiche religiose etrusche e sono:
1) Valerian (Valerium officinalis);
2) Arum (Arun italicum);
3) Pinperne, scarlet and blue (Anagallis arvensis and Anagallis caerulen);
4) Gentian (Gentium sp.);
5) Tuberons thistle (Cnicus tuberosus );
6) Thyme (Thimus vulgaris or serpelluim);
7) Feverfew (Chrysanthemun parthenium, ‘maiden’s golden plant’, or ‘flover’);
8) Madder (Rubia tinctorum, ‘dyers red plant’);
9) Helichrysum (Helichrysum stoechas);
10) Herbane (Hyoscyanus niger);
11) Rough hindweed (Smilax aspera).

Queste sono le 11 erbe medicinali ma anche necessarie per pratiche religiose. Quindi, come tanti storici latini ci tramandano con i loro scritti relativi al popolo etrusco,  si capisce come fossero un popolo altamente religioso e superstizioso. Questi due termini molto chiari e precisi ci danno un’immagine di come potevano spaziare le loro conoscenze in tali pratiche.

Fonte discoverytuscia.blogspot.com

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